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La terapia chelante e le sue applicazioni alternative

Per gli avvelenamenti la terapia chelante può rappresentare l'ultima spiaggia, ma c'è chi pensa possa trattare anche diverse patologie. Cosa c'è di vero?

La terapia chelante è una procedura che permette di trattare alcuni avvelenamenti da metalli pesanti come, per esempio, il piombo o il mercurio. La terapia prevede l’utilizzo di una sostanza chelante, capace di legarsi ai metalli pesanti presenti nel sangue. Il composto che ne deriva viene successivamente espulso dall’organismo. Si tratta di una pratica efficace e riconosciuta dalla medicina. Allo stesso tempo, la terapia chelante è stata proposta per intervenire sia in altri ambiti – nel contesto della sclerosi multipla o dei disturbi dello spettro autistico – sia come rimedio per ripulire il corpo dalle tossine. L’utilizzo “alternativo” della terapia è ritenuto privo di efficacia e pericoloso

Chele a caccia di metalli

Gli agenti chelanti sono sostanze che si legano con atomi metallici per formare una struttura molecolare chiamata chelato. Esistono vari farmaci chelanti, ognuno indicato per specifici avvelenamenti. Per esempio, la deferoxamina si usa per il trattamento dell’intossicazione da ferro; l’EDTA, acido etilendiamminotetracetico viene impiegato nei casi di avvelenamento da cobalto, piombo e zinco; la penicillamina può rimuovere un pericoloso eccesso di arsenico, oro, piombo o sali di rame.

La terapia chelante non è priva di rischi. L’agente chelante non si lega esclusivamente al metallo causa dell’avvelenamento, bensì raccoglie metalli diversi, senza grandi distinzioni. Il pericolo è che il farmaco sottragga all’organismo anche le quantità di metalli necessarie per il suo funzionamento, come il rame, lo zinco e il calcio. La pratica oggi è organizzata in modo tale da ridurre i rischi al minimo. Nonostante questo margine d’incognita, la terapia chelante è stata proposta e utilizzata al di fuori del proprio specifico campo d’applicazione.

TACT. Da zero a un trial di fase III

La terapia chelante è stata proposta per il trattamento dell’aterosclerosi: l’indurimento e conseguente perdita di elasticità delle pareti delle arterie, provocata dalla formazione di placche che contengono, fra le altre cose, calcio. L’aterosclerosi è alla base di gravi patologie cardiovascolari, fra cui l’infarto cardiaco e l’aneurisma. Negli anni sono stati pubblicati numerosi studi mirati a verificare se una terapia chelante avrebbe potuto portare a benefici, sfruttando la capacità di specifici agenti chelanti di legarsi al calcio e ripulire i vasi sanguigni. Nonostante alcuni case report suggerissero un possibile effetto benefico per i pazienti aterosclerotici, i modesti studi randomizzati su pazienti con angina o arteriopatia periferica non hanno mai fornito prove certe sull’efficacia del trattamento. Il Trial to Assessing Chelation Therapy (TACT) è stato il primo studio randomizzato su un campione rilevante di persone. Lo studio, condotto tra il 2003 e il 2012, coinvolse 1.708 volontari e fu coordinato da alcuni ricercatori del Mt. Sinai Medical Center di Miami, con il contributo del National Heart, Lung, and Blood Institute (NHLBI) e del National Center for Complementary and Integrative Health (NCCIH). Queste ultime sono due delle 27 realtà, tra istituti e centri di ricerca, che compongono il National Institutes of Health (NIH), inquadrato all’interno del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti. 

L’NCCIH svolge ricerca scientifica su ciò che, in genere, non viene considerato parte della medicina convenzionale. TACT si svolse tra critiche, vigorose richieste di interruzione e molte altre ombre. I risultati dello studio, annunciati dapprima durante un convegno dell’American Hearth Association a fine 2012 a Los Angeles, furono infine pubblicati sul Journal of the American Medical Association all’inizio della primavera successiva. Il trial prevedeva che 839 soggetti ricevessero 40 infusioni di EDTA mentre ai restanti 869 partecipanti venisse somministrato un placebo. A seguito delle infusioni, i medici monitoravano le condizioni di salute dei volontari per quattro anni, tenendo traccia di decessi, infarti del miocardio, ictus, necessità di rivascolarizzazione coronarica e ricovero in ospedale per angina. Secondo i responsabili del trial, i volontari a cui era stato infuso l’EDTA erano stati meno soggetti a questi eventi e, di conseguenza, la terapia chelante applicata nel contesto dell’aterosclerosi poteva comportare benefici, soprattutto per i pazienti diabetici. 

I benefici evidenziati nel confronto tra i due gruppi di volontari raggiungevano a malapena la significatività statistica. Gli apparenti benefici riscontrati nel sottogruppo dei soggetti diabetici potevano non essere indicativi di una reale efficacia del trattamento, come precisato dagli stessi autori. Inoltre, la gran parte dei volontari che avevano interrotto il trattamento apparteneva al gruppo di controllo: un dato che ha fatto emergere più di un sospetto sul metodo di reclutamento. Molti dei pazienti erano stati contattati in contesti specializzati in medicine alternative e che già proponevano la terapia chelante. Lo sottolineò Steven Nissen, autore di una serie di critiche pubblicate sullo stesso numero di JAMA che presentava i risultati del trial. Secondo Nissen era possibile che alcuni di questi pazienti avessero abbandonato lo studio dopo avere scoperto di ricevere il placebo. Non c’era traccia, in sintesi, di qualsiasi elemento per considerare la terapia chelante per scopi diversi da quelli previsti. Ciò non ha scoraggiato il coordinatore dello studio, il dottor Gervasio Lamas del Mt. Sinai Medical Center, che nel 2016 ha avviato TACT2, un altro trial di fase 3 in cui si sperimenteranno le infusioni di EDTA su pazienti diabetici. I risultati saranno resi noti nel corso del 2022.

Un’infusione detox

La terapia chelante è stata proposta anche per intervenire sulla Sclerosi Multipla, prendendo spunto da uno studio rumeno del 1985 che evidenziava risultati incoraggianti dall’uso di un composto di vari agenti chelanti che avrebbe migliorato la penetrazione del calcio nelle cellule nervose. Questi e altri risultati non sono mai stati confermati e gli esperti affermano che l’utilizzo di sostanze chelanti come trattamento della sclerosi multipla non ha accettabili evidenze scientifiche per essere approvato. 

La terapia chelante è stata impiegata in maniera impropria anche per il trattamento dei disturbi dello spettro autistico. In questo caso, l’idea nasce dalla congettura che i vaccini contengano mercurio, il quale provocherebbe l’autismo. Si tratta di una falsità e l’impiego a sproposito della terapia chelante può anche avere un esito tragico. Nel 2005 Abubakar Tariq Nadama aveva 5 anni quando morì dopo un’infusione di EDTA, somministrata dal dottor Roy Eugene Kerry di Portersville, in Ohio. La sua famiglia aveva scelto di sottoporlo al trattamento nel tentativo di curarlo dall’autismo. Karen Kane e Virginia Linn, giornaliste del Pittsburgh Post-Gazette che si erano occupate del caso, avevano messo in evidenza come negli Stati Uniti le famiglie con bambini autistici che ricorrevano alla terapia chelante fossero giù allora più di 10.000.

Nonostante i numerosi appelli a non ricorrere a questo genere di terapia fuori dal suo contesto applicativo riconosciuto, molte realtà propongono e applicano la terapia chelante in maniera variegata: per l’artrite e i reumatismi, per “pulirsi” dalla chemioterapia e, più in generale, come trattamento preventivo. L’idea che una sostanza possa ripulirci da tutto ciò che è nocivo fa breccia con facilità e ancora oggi continua ad avere un certo consenso


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Immagine: Pixabay

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Gianluca Liva
Giornalista scientifico freelance.