LIBRI

Nell’abisso. Storie di menti spezzate

Il libro del neuropsichiatra inglese Anthony David racconta sette storie in sette capitoli, narrando mente e cervello umani con approccio scientifico e coinvolgente.

«Ero nel reparto per pazienti in stato vegetativo persistente (SVP) o in stato di minima coscienza (SMC). Tutti avevano subito “danni cerebrali catastrofici” (per una volta il termine tecnico non è un eufemismo, ma dice le cose come stanno).»

E dire le cose come stanno, usando un linguaggio semplice e una prospettiva non solo professionale ma umana e personale, è uno dei motivi per i quali il nuovo libro del neuropsichiatra inglese Anthony David si legge come un romanzo. Tradotto in italiano da Camilla Pieretti per Il Saggiatore, Nell’Abisso. Storie di menti spezzate (2020, 192 pagine, 23 €) racconta sette storie in sette capitoli, facendo sentire il lettore a momenti come un osservatore esterno, quasi come di fronte a un giallo del quale si aspetta di scoprire il colpo di scena – in questo caso la diagnosi e dunque la terapia, forse la cura? – e solo poche pagine dopo quasi come un membro dello staff dell’ospedale psichiatrico, disperatamente alla ricerca di un nome per la condizione di un paziente.

David racconta queste storie con un piglio romanzesco che ricorda un po’ quello del neurologo Oliver Sacks a inizio anni ’80, e così facendo permette anche di riflettere su quanto, in molti casi, la mente e il cervello umani restino un grande mistero che può cogliere impreparati gli psichiatri (o i neurologi nel caso di Sacks) oggi quanto lo avrebbe fatto 40 anni fa.

A dirimere la questione, o almeno a provare a mettere un po’ d’ordine, c’è l’approccio che David racconta da subito nell’introduzione: di fronte a un nuovo paziente, ancor di più di fronte a quelli più difficili, i moderni psichiatri devono capire quale sia l’aspetto cruciale per spiegarne il malessere tra biologia, psicologia e sociologia. Che non azzera gli altri, ma è quello dominante, perché il modello moderno dei disturbi mentali, dice l’autore, è biopsicosociale. E probabilmente non potrebbe essere altrimenti visto che il dibattito sul tema va da chi ritiene si stia medicalizzando troppo la salute mentale, finendo anche per diagnosticare il “normale”, a chi incolpa la modernità – che si tratti della tecnologia, dei social media, della religione – di ogni cosa.

Storie di pazienti, storie di persone

Con la stessa genuinità con la quale David ci introduce al racconto dei suoi pazienti, così con delicatezza ci racconta le loro storie e i punti di contatto che con loro ha trovato. Si parla di depressione, di suicidio, di derealizzazione, di schizofrenia. C’è la storia di Emma, catatonica, in “stupor depressivo” da praticamente tutta una vita e che riprende a interagire solo quando – fallite terapie e farmaci di ogni tipo per anni – i medici decidono di ricorrere come ultima spiaggia all’elettroshock (o terapia elettroconvulsivante, TEC). Quel trattamento controverso, forse il più controverso della psichiatria, che gran parte di noi associa a rappresentazioni cinematografiche colorite ma nella pratica clinica è ben più blando perché somministrato con un anestetico in ambiente controllato, e come ultima risorsa dopo il fallimento di tutto ciò che si poteva mettere in campo.

La TEC si usa ancora e a oggi è ritenuta in genere una valida possibilità terapeutica, dice David; nel Regno Unito resta inclusa tra le linee guida per una serie di patologie e specifiche situazioni, seppur manchino – per ovvie difficoltà nel reclutare le persone adatte allo scopo – studi controllati randomizzati su grandi numeri di pazienti.

E ancora Caitlín, arrivata in clinica con dicitura “?disordine alimentare atipico” per il peculiare approccio con il cibo ma che l’autore presto fatica a vedere come donna anoressica: fortemente sottopeso, molto peculiare, ha subito una violenza sessuale ma dice di averla superata, a suo dire non vive male il proprio aspetto e non si capacita di quanto le persone intorno al lei siano ossessionate dal cibo, dal variare alimentazione, dal condividere un pasto, dal goderne, da tutto ciò che circonda il mangiare. I suoi pasti sono sempre tutti uguali: cracker di segale, lattuga, tè nero, a volte una mela. Perché mai ci sono persone che dicono di avere un “rapporto complesso” con il cibo, chiede Caitlìn a David, cosa ci può essere di complesso nel mangiare? Non è che una funzione biologica, in questo dovrebbe esaurirsi.

Gradualmente il neuropsichiatra conosce la paziente, il suo percorso di vita e di studi (storia e politica), e non riesce definitivamente più a incasellarla in un disturbo alimentare – neanche se atipico – ma scivolando con la psicanalisi “ben al di fuori dell’ambito che mi competeva” inizia a vederla come una sorta di asceta che sente su di sé il peso storico dei mali del mondo e lo gestisce conducendo una vita frugale, senza piaceri, quasi non avesse diritto a goderne. Ma quella di Caitlìn è una storia con finale inaspettato, così come le altre sei.

Tutti questi racconti di vita, di salute e di malattia sono incredibilmente ben bilanciati tra la scienza e l’ “umano” del rapporto medico-paziente, un rapporto che non è facile creare, mantenere, limitare, non lasciar sconfinare soprattutto quando (come nel caso della psichiatria) prevede lunghi incontri uno-uno e intima condivisione. E spesso non è facile nemmeno il rapporto con i familiari dei pazienti, comprensibilmente prosciugati da lunghi percorsi che non sembrano mai concludersi, portare a un miglioramento, dare una risposta.

Genitori che non vedono presa sul serio la malattia dei figli e perdono fiducia nella medicina, o che all’estremo opposto si rifugiano in illusioni che una mente non scossa, non provata allo stremo non arriverebbe a concepire. Come la madre di Malik, paziente schizofrenico caduto (o lanciatosi) da un edificio di tre piani, talmente disperata da sperare che le gravi lesioni riportate dalla caduta potessero aver danneggiato “le parti compromesse, la parte folle, facendolo stare meglio. Un po’ come quando dicono di spegnere e riaccendere il computer: a volte funziona!”.


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Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Eleonora Degano

Eleonora Degano

Editor, traduttrice e giornalista freelance
Biologa ambientale, dal 2013 lavoro nella comunicazione della scienza. Oggi mi occupo soprattutto di salute mentale e animali; faccio parte della redazione di OggiScienza e traduco soprattutto per National Geographic e l'agenzia Loveurope and Partners di Londra. Ho conseguito il master in Giornalismo scientifico alla SISSA, Trieste, e il master in Disturbi dello spettro autistico dell'Università Niccolò Cusano. Nel 2017 è uscito per Mondadori il mio libro "Animali. Abilità uniche e condivise tra le specie".