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Nobel per la Medicina 2020: un premio all’identificazione del virus dell’epatite C

Il premio Nobel per la Fisiologia o Medicina del 2020 è stato assegnato a tre diversi scienziati che, lavorando indipendentemente, hanno portato all’identificazione del virus dell’epatite C come responsabile della malattia e della sua trasmissione con il sangue infetto, aprendo la strada allo sviluppo di screening e farmaci antivirali

È iniziata ieri la settimana dell’assegnazione dei premi Nobel. E il primo di essi, quello per la Fisiologia o Medicina, è stato assegnato a tre scienziati per il loro lavoro sulle tracce di un virus: quello dell’epatite C.

Virus ed epatite

L’epatite è un’infiammazione del fegato le cui cause possono essere virali o meno; l’alcol, per esempio, è noto per la sua capacità di danneggiare il tessuto epatico. Il virus dell’epatite C è uno dei responsabili delle epatiti infettive: come il suo parente, il virus dell’epatite B, uno dei problemi più gravi che pone è la sua capacità di cronicizzare, condizione che a sua volta può portare a cirrosi e carcinoma epatico. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, si stima che, a livello globale, vi siano 71 milioni di persone con epatite C cronica, e che nel 2016 la cirrosi o il carcinoma dovuti al virus abbiano ucciso quasi 400.000 persone.

Ma, dalla sua scoperta a oggi, la ricerca ha potuto fare grandi passi avanti per contrastare questo virus. A partire appunto dal riconoscerlo, un primo, fondamentale passo per lo sviluppo di screening e medicinali: sono proprio i tre scienziati che per primi lo hanno identificato come responsabile dell’epatite a vedersi assegnato, quest’anno, il premio Nobel per la Medicina.

Epatite, una storia da Nobel

Non è la prima volta che i virus responsabili di epatite portano all’assegnazione di un premio Nobel ai loro scopritori. Già nel 1976, infatti, il premio andò a Baruch Blumberg, il biochimico statunitense che identificò il virus dell’epatite B, anch’esso in grado di cronicizzare e portare a cirrosi ed epatocarcinoma ma contro il quale oggi è disponibile un vaccino. La scoperta del virus dell’epatite B è stata particolarmente importante perché la sua trasmissione avviene attraverso il sangue e i fluidi corporei infetti; questo pone un problema particolare in caso di trasfusioni. E infatti, la scoperta del virus permise innanzitutto di sviluppare test diagnostici per evitare che vi fossero infezioni correlate alle trasfusioni (in passato usate anche, per esempio, per i pazienti emofiliaci).

In effetti, l’identificazione del virus dell’epatite B permise di ridurre i casi di malattia dovuti alla trasfusione. Ma non del tutto, non in modo abbastanza significativo. Ed è proprio su questo punto che s’inserisce il lavoro di Harvey J. Alter, uno dei tre ricercatori a condividere il premio Nobel di quest’anno. Medico newyorkese, Alter aveva già collaborato con Blumberg nei lavori che portarono quest’ultimo a identificare il virus dell’epatite B; in seguito alla sua scoperta, a rigor di logica e per le conoscenze del tempo, i casi di epatite dovuti alle trasfusioni avrebbe dovuto praticamente sparire. Eppure, Alter dimostrò che così non era; e poiché nel frattempo erano stati messi a punto anche i test per rivelare la presenza di un altro virus, quello dell’epatite A (la cui trasmissione avviene comunque prevalentemente con l’assunzione di cibi o bevande infette), iniziava anche a diventare chiaro che, forse, mancava ancora almeno un membro alla famiglia dei virus dell’epatite.

Il lavoro di Alter e dei suoi colleghi, in effetti, ha potuto mostrare che esisteva un altro agente patogeno in grado di trasmettere l’epatite, e che tale patogeno aveva le caratteristiche di un virus.

Non A, non B

Per il momento, però, il virus mancava di un’identificazione certa, nonché di nome: era noto soltanto come un virus dell’epatite “non A e non B”. Era necessario saperne qualcosa di più.

A riuscirci per primo è stato il secondo vincitore del Nobel 2020, Michael Houghton, un microbiologo inglese che, all’epoca, lavorava per la compagnia farmaceutica Chiron. Tra il 1982 e il 1989, Houghton “ha intrapreso l’arduo lavoro necessario per isolare la sequenza genetica del virus”, come si legge sul comunicato del premio, lavorando con un nuovo approccio di clonazione molecolare sui frammenti di genoma provenienti da scimpanzé infetti (l’unica altra specie che si era dimostrata suscettibile). In seguito, Houghton ha usato gli anticorpi provenienti dal sangue dei pazienti umani per identificare i frammenti virali su batteri trasfettati con il DNA complementare (cioè retro-trascritto a partire da RNA).

L’ultimo tassello del puzzle lo ha fornito il terzo co-premiato del Nobel, il virologo statunitense Charles M. Rice, che ha dimostrato come quell’unico nuovo virus, ribattezzato appunto virus dell’epatite C, fosse in grado, da solo, di causare la malattia. Per farlo, ha impiegato una variante del virus geneticamente ingegnerizzata e lo ha iniettato – ancora – negli scimpanzé: gli animali trattati si sviluppavano alcuni tratti patologici simili a quelli osservati negli umani. Inoltre, il virus diventava rilevabile nel sangue, a conferma definitiva che era la sua presenza la causa di malattia nei pazienti che si erano ammalati con le trasfusioni.

Il lavoro di Alter, Houghton e Mice è stato fondamentale nella lotta al virus. E anche se contro il virus dell’epatite C non abbiamo ancora un vaccino (disponibile invece contro quelli dell’epatite A e B), proprio grazie al lavoro di questi tre scienziati è stato possibile innanzitutto sviluppare un test diagnostico per prevenire la trasmissione del virus – tanto che sono virtualmente scomparsi i casi d’infezione dovuti a trasfusione – e lavorare allo sviluppo di farmaci antivirali.

Oggi, ricordano ancora sul sito del premio Nobel, i trattamenti antivirali sono in grado di curare oltre il 95 per cento dei pazienti. Sulla strada per l’eradicazione del virus restano, queste sì, due sfide importanti da affrontare: da una parte, la mancanza di vaste campagne di screening, e dall’altra i costi alti dei trattamenti più efficaci, che determinano ancora l’ineguaglianza delle cure a livello globale.


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Anna Romano
Biologa molecolare e comunicatrice della scienza, amo scrivere (ma anche parlare) di tutto ciò che riguarda il mondo della ricerca.