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Quanto il lockdown (non) ha influito sulla riduzione delle emissioni

Mentre eravamo tutti chiusi in casa, il mondo esterno ci è sembrato diventare più bello e più pulito. Ma è stato davvero così?

Ormai quasi un anno fa, durante il primo lockdown di marzo 2020, molti organi di stampa nazionali e internazionali mostravano immagini di una natura che “si riprendeva i propri spazi”: animali che sconfinavano in zone abitate, viste panoramiche di città libere dallo smog e torrenti limpidi. Secondo la ricerca scientifica, però, questa potrebbe essere stata una narrazione lontana dalla realtà dei fatti.

Riduzione sovrastimata

Le grafiche animate che mostrano la scomparsa degli inquinanti atmosferici durante la pandemia potrebbero averci raccontato una storia più bella di quella che in realtà è stata. La diminuzione causata dal lockdown è stata infatti spesso calcolata confrontando le concentrazioni dei contaminanti gassosi prima e dopo l’inizio del lockdown. Ma questo metodo può risultare fuorviante.

Un team dell’università di Birmingham ha guardato al calo degli inquinanti durante la primavera 2020 in 11 città dell’emisfero boreale, considerando diversi fattori. Giornate di bello o cattivo tempo, ad esempio, fanno sì che gli inquinanti siano dispersi più o meno velocemente, mentre la quantità e la natura delle emissioni cambia dall’inverno a stagioni più calde. Gli scienziati britannici hanno inserito i fattori metereologici in metodi statistici e tecniche di machine learning, scoprendo che la diminuzione di alcuni inquinanti non è stata così marcata come credevamo.

A Roma, per esempio, il biossido di azoto prodotto soprattutto dagli scarichi delle automobili in primavera è diminuito del 42%, ma la percentuale imputabile all’isolamento è circa il 27%. Per gli autori dello studio far conoscere i reali effetti del lockdown è molto importante, perché se le persone ne sovrastimano i benefici potrebbero sottostimare il problema dell’inquinamento nelle città, e fallire nell’intraprendere azioni radicali necessarie per avere una qualità dell’aria urbana nei limiti di sicurezza per la salute.

Un calo senza conseguenze

Ma se una diminuzione di questi inquinanti urbani, anche se minore di quella pensata, può essere comunque una buona notizia, non si può dire altrettanto per la diminuzione di CO2. Il solo crollo dovuto al lockdown non ha avuto alcuna conseguenza sul clima, anzi: la sua produzione è già risalita. Come nel caso precedente, non sottostimare il problema è fondamentale. Ad esempio le emissioni di gas serra producono un aumento di temperature a livello globale che spingono gli ecosistemi verso dei punti di non ritorno. Ne abbiamo parlato con Elisa Palazzi, fisica, ricercatrice presso l’Istituto di Scienza dell’Atmosfera e del Clima (ISAC) del CNR e docente di Fisica del clima presso l’Università di Torino.

“Si potrebbe pensare che l’aumento di temperatura media globale di un solo grado centigrado negli ultimi 100 anni non abbia alcun effetto, ad esempio perché c’è una variazione molto maggiore tra il giorno e la notte. Ma un grado in più su tutto il globo, per un lungo periodo di tempo è tantissimo. Il sistema climatico funziona anche così: al superamento di una soglia che può essere innescata da un aumento anche solo di 1°C medio sul pianeta, e spesso maggiore in alcune regioni, posso innescarsi processi lenti ma irreversibili. Fa parte della dinamica dei sistemi complessi ed è un processo spesso controintuitivo. Per questo la comunicazione del rischio climatico è problematica, c’è una barriera molto forte e ci dobbiamo fidare di quello che dice la scienza”.

Un esempio può essere la diminuzione del CO2 Fertilization Effect (CFE), quell’effetto per cui maggiore è la concentrazione di anidride carbonica più le piante hanno cibo e crescono. Ma, all’aumentare delle temperature, gli ecosistemi terrestri stanno diventando sempre meno capaci di assorbire CO2. Nell’Artico questo potrebbe essere dovuto alla minore disponibilità di acqua causata dall’aumento delle temperature, mentre in zone tropicali potrebbe essere legato a una diminuzione della quantità di nutrienti.

Comunicare i risultati della ricerca è fondamentale per far sì che si prenda coscienza della realtà e non ci si fermi alle apparenze. Per questo Palazzi critica l’uso di quelle immagini della natura che si riprende i propri spazi: “sono evocative, ma fortemente distorcenti perché raffigurano gli uomini come distaccati dalla natura, come se la osservassero solo da lontano.” La fisica, inoltre, sostiene che se ci abituassimo a pensarci come immersi in una rete invisibile che ci connette con tutto, forse cambieremmo approccio nei confronti di problemi come il cambiamento climatico o la perdita di biodiversità. “Noi siamo parte della natura, e il mondo animale e vegetale così come l’aria e le acque risponde ai nostri stimoli, come è successo durante la pandemia.”

Nel caso del clima la risposta è lenta, e a fronte di un calo così evidente delle emissioni la scienziata afferma che “se gli effetti fossero immediati avremmo riscontrato una temperatura globale inferiore già nel 2020”. Per questo, se il 2021 dovesse essere un anno leggermente meno caldo dei precedenti, cosa probabile stando a quanto afferma il servizio meteorologico nazionale britannico, non potremo attribuirlo al calo di emissioni del 2020 ma alla naturale variabilità interna del sistema climatico che comprende eventi come La Niña, fenomeno periodico che raffredda la superficie di mari e oceani.

Obiettivi meglio stimati

La buona notizia in tutto ciò è che conosciamo sempre meglio i nostri stimoli al cambiamento climatico. Infatti, uno studio pubblicato su Nature Communication Earth and Environment ha calcolato con maggiore accuratezza il carbon budget, cioè la quantità di CO2 che possiamo ancora permetterci di rilasciare in atmosfera per raggiungere gli obiettivi degli accordi di Parigi. Lo studio afferma che la quantità di CO2 che, dal 2020 al 2030, possiamo ancora emettere in atmosfera è di 440 miliardi di tonnellate (circa 12 volte la quantità di CO2 prodotta globalmente ogni anno) se vogliamo avere il 50% di possibilità di raggiungere l’obiettivo di limitare l’aumento di temperatura rispetto al periodo preindustriale a 1,5 °C.

Damon Matthews, autore della ricerca, commenta così in un comunicato: “Le tantissime stime del carbon budget in letteratura hanno contribuito sia alla confusione che all’inazione della politica riguardo il clima. Questa è la prima volta che vengono prese in considerazione tutte le incertezze e incluse in un’unica stima”. Matthews è fiducioso, e parla della pandemia come di un’opportunità. “Le emissioni sono scese e possiamo aumentare le nostre chances di limitare l’aumento di temperatura se evitiamo che risalgano”.

Elisa Palazzi è invece meno ottimista: “Credo che sarà difficile raggiungere l’obiettivo più ambizioso, quello di limitare l’aumento di temperatura e a un grado e mezzo entro la fine del secolo. Il 2020 ha infatti già visto un aumento di 1,2°C rispetto al periodo preindustriale. Credo invece sia possibile non superare i 2°C. Di quanto la temperatura aumenterà dipende dalle scelte individuali e collettive, e soprattutto dalle politiche di riduzione delle emissioni intraprese a livello globale: di forte mitigazione, di stabilizzazione oppure di alte emissioni come è successo negli ultimi decenni. Quale obiettivo raggiungeremo dipende da molte variabili di cui però una sola è la principale fonte di incertezza. Noi, gli esseri umani.”


Leggi anche: Le notizie più importanti del 2020 per il clima e l’ambiente

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

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Nicola De Bellis
Chimico dell'ambiente, Studente del master MCS. Seguo il basket NBA e, quando non sono in corso pandemie, ogni tanto viaggio lontano.