IPAZIA

Storia di una scelta: Isabel Morgan e le ricerche sulla polio

Prima di Salk e Sabin, Isabel Morgan mise a punto il primo vaccino a virus inattivato contro la poliomielite

Tra gli anni Trenta e Cinquanta, appena ripresa dalla crisi del 1929 e nonostante lo sforzo bellico della Seconda guerra mondiale, l’America intera impiegò la maggior parte delle sue forze per affrontare una sfida sanitaria che aveva avuto pochi eguali nella sua storia più recente. Focolai epidemici di poliomielite cominciarono a scoppiare qua e là per tutto il paese. La comunità medica, finanziata da nuove charities che hanno contribuito enormemente a scrivere questa pagina della storia della scienza, si concentrò sempre più nello studio della polio, volendo anzitutto trovare un modo per fermare la trasmissione della malattia.

Nella testa di moltissimə di noi il vaccino contro la polio porta con sé il nome di Jonas Salk oppure di Albert Sabin. Non si conosce, invece, il nome di Isabel Morgan, che anticipò i due colleghi mettendo a punto un primo vaccino a virus inattivato.

Figlia dell’aristocrazia scientifica

Isabel Merrick Morgan nacque il 20 ottobre 1911 a New Bedford, nello stato del Massachusetts. Quarta e ultima figlia di Thomas Hunt Morgan e Lilian Vaughan Sampson-Morgan, Isabel faceva parte dell’aristocrazia scientifica dell’epoca. Al padre genetista si deve la scoperta della trasmissione dei geni da parte dei cromosomi, per cui riceverà il premio Nobel per la medicina nel 1933. La madre, biologa e allieva del suo futuro marito, s’interessò prima all’embriologia, per poi rinunciare (temporaneamente) alla sua carriera per prendersi cura della famiglia.

Lilian istruì personalmente le figlie e il figlio in casa fino al loro decimo compleanno. Com’è facile immaginare, l’educazione scientifica venne trattata con la massima attenzione. Per di più, nella casa delle vacanze dei Morgan, che si trovava a poca distanza dal Woods Hole Marine Biological Laboratory, erano ben spesso ospitati biologi e virologi. Non appena anche Isobel cominciò la scuola, Lilian riprese a lavorare nel laboratorio del marito, dove studiò con attenzione il cromosoma X di Drosophila melanogasterm – il moscerino della frutta, al centro delle ricerche di Thomas.

Non stupisce immaginare Isabel attratta da questo mondo, cui decise di dedicare parte della sua vita. Fu l’unica figlia della coppia a voler diventare una scienziata, anche se il fratello Howard divenne un ingegnere ed entrambe le sorelle, Edith e Lilian, sposarono comunque due scienziati. Insomma, la scienza regnava sovrana in casa Morgan.

Polio: le ricerche tra il Rockefeller Institute e la John Hopkins

Dopo la laurea alla Stanford University nel 1932 e il dottorato in batteriologia all’università della Pennsylvania nel 1936, Morgan cominciò a lavorare al Rockefeller Institute di New York nel 1938 nel gruppo di ricerca guidato dal virologo Peter Olitsky. Il Rockefeller Institute, fondato nel 1901 dal magnate John Rockefeller, era allora il più grande e importante istituto di ricerca negli Stati Uniti, nato per colmare il gap tra l’America e l’Europa sulla ricerca in ambito batteriologico (si pensi solo al Pasteur di Parigi o al Koch di Berlino, sorti entrambi a fine Ottocento).

Al Rockefeller, Morgan cominciò a interessarsi alla poliomielite. Questa malattia, provocata da virus gastrointestinali chiamati polivirus, in alcuni casi può colpire il sistema nervoso e provocare gravi danni come la paralisi, finanche la morte. A inizio Novecento la polio è stata una vera piaga in America, paralizzando e uccidendo moltissime persone.

Nonostante i riconosciuti apprezzamenti da parte dei suoi superiori, l’ambiente di lavoro al Rockefeller non era molto ospitale nei confronti di Morgan. Lo stipendio misero e decisamente più basso rispetto a quello dei suoi colleghi la costrinsero a trasferirsi e nel 1944 arrivò alla John Hopkins, nel laboratorio di Howard Howe e David Bodian, dove riprese il suo lavoro di ricerca sulla polio.

Il siero di Morgan. Salk e Sabin battuti sul tempo

Mentre venivano individuati i tre ceppi di poliovirus, Morgan concentrò tutte le sue ricerche nel trovare un vaccino che immunizzasse contro la malattia che ogni estate poteva arrivare a infettare oltre 50mila persone. Come tutti i suoi colleghi, Morgan faceva sperimentazione utilizzando scimmie, che doveva necessariamente infettare per provare qualsiasi tipo di siero messo a punto.

I suoi esperimenti ebbero risultati molto promettenti. Riuscì a ottenere un vaccino inattivo – uccidendo con la formaldeide il virus precedentemente coltivato su tessuti nervosi – che fu in grado di proteggere i primati infettati dalle alte dosi di poliovirus. Le scimmie non svilupparono la malattia, nemmeno i sintomi che potevano essere rivelatori della paralisi. L’articolo nel quale Morgan comunicò alla comunità scientifica la sua eccezionale scoperta apparve sull’American Journal of Hygiene nel 1948 e portava solo la sua firma.

L’abbandono della ricerca sulla polio

Le ricerche di Morgan sulla polio, tuttavia, si fermarono d’improvviso. Nel 1949 sposò Joseph Mountain, informatico e colonnello dell’aviazione americana. Per occuparsi della sua nuova famiglia (Mountain aveva già un figlio, Jimmy, un bambino di 11 anni con disabilità), Morgan lasciò il suo impiego alla John Hopkins per trasferirsi prima in un piccolo laboratorio nella contea di Westchester, poi all’ospedale pediatrico Columbia-Presbyterian Medical Center di New York. Pubblicò comunque ancora qualche articolo sulla polio, anche grazie alle piccole ricerche condotte con Hattie Alexander, pediatra a capo del laboratorio di microbiologia dell’ospedale.

Dopo la morte del figlioccio nel 1960, Morgan abbandonò del tutto le ricerche sulla polio e s’interessò alla biostatistica, dedicandosi insieme al marito ad alcune indagini sugli effetti dell’inquinamento sulla salute della popolazione. Prese a collaborare anche con lo Sloan Kettering Cancer Center di Manhattan. Ma con la morte del marito, nel 1970, la sua carriera si arrestò di nuovo. Il suo ultimo paper lo pubblicò nel 1979. 

Fino alla sua morte, avvenuta il 18 ottobre 1996, Morgan si impegnò per preservare la memoria del lavoro della sua famiglia e in particolare di suo padre.

Il suo fondamentale contributo alla ricerca contro la polio è stato riconosciuto da tutti i suoi colleghi fin dal primo momento. A Warm Springs, sede del centro riabilitativo per poliomielitici fondato da Franklin Delano Roosevelt nel 1926, nel monumento scultorio Polio Hall of Fame quello di Morgan è l’unico volto di donna raffigurato.

Post scriptum

La scelta di Morgan di abbandonare la prestigiosa ricerca che stava seguendo alla John Hopkins ebbe delle ripercussioni sulla storia della scienza tutta. Da lì a qualche anno, nel 1955, Jonas Salk presentò a una platea di giornalisti il suo vaccino inattivo, che fu utilizzato per la prima grande campagna di vaccinazione contro la polio in tutto il mondo, mentre Albert Sabin mise a punto il suo vaccino a virus attenuato. Anche se “con i se e con i ma, la storia non si fa” possiamo azzardare nel dire che se Morgan non avesse concluso la sua carriera sul finire degli anni Quaranta, probabilmente sarebbe stata lei a ricevere i grandi onori riservati poi a Salk e Sabin.

Non dobbiamo colpevolizzare Morgan sulla sua scelta di occuparsi della casa e della famiglia, quanto invece dobbiamo interrogarci sul perché della scomparsa del suo nome nella narrazione della storia della polio. Abbiamo sotto gli occhi un esempio lampante di effetto Matilda, la svalutazione e l’oscuramento dei meriti di una scienziata a beneficio di quelli dei colleghi. 

Certo, sono in molti tra i colleghi di laboratorio di Morgan che ammisero il suo tentennamento di andare oltre la sperimentazione animale, cioè testare il suo siero sui bambini e non è un dettaglio da sottovalutare. Ma a prescindere da tutto, le scelte etiche e personali di Isabel Morgan hanno poco a che fare con l’oblio del suo nome dalla storia della corsa al vaccino contro la poliomielite.


Leggi anche: Lynn Conway, pioniera dell’informatica licenziata perché transgender

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Immagine: Wikimedia Commons

Condividi su
Serena Fabbrini
Storica della scienza di formazione, dopo un volo pindarico nel mondo della filosofia, decido per una planata in picchiata nella comunicazione della scienza. Raccontare storie è la cosa che mi piace di più. Mi occupo principalmente di storie di donne di scienza, una carica di ispirazione e passione che arriva da più lontano di quanto pensiamo. Ora dedico la maggior parte del mio tempo ai progetti di ricerca europei e alla comunicazione istituzionale.