Il test dello specchio per i furetti
Un recente studio applica il mirror test, impiegato per capire se gli animali si riconoscono allo specchio, su un piccolo gruppo di furetti: le conclusioni sono ancora molto caute, ma il lavoro aiuta ad ampliare le specie per le quali è stata indagata questa abilità cognitiva
La capacità di riconoscersi allo specchio, scontata per gli umani (almeno da una certa età in poi), non lo è così tanto nel resto del mondo animale. In effetti, nel tempo sono stati condotti – e continuano a esserlo – moltissimi studi dedicati a capire se una determinata specie è in grado di percepire che l’immagine riflessa nello specchio corrisponde all’individuo stesso, un’abilità che potrebbe essere alla base della consapevolezza di sé.
Tra gli animali su cui sono stati condotti questi studi si trovano sia selvatici (per esempio gli elefanti e i delfini) sia domestici. E, a quest’ultimo gruppo, si sono di recente aggiunti i furetti: un recente lavoro pubblicato su Animal Cognition fornisce infatti un’analisi preliminare della loro capacità di superare il cosiddetto mirror test o test dello specchio. I risultati non sono conclusivi, ma suggeriscono che valga la pena indagare ancora, e testimoniano l’interesse crescente per studiare questa abilità in un range di animali sempre più vasto.
Qualche parola sulle abilità socio-cognitive del furetto
Finora non abbiamo ancora mai parlato di furetti su questa rubrica. Per contestualizzarli un po’ meglio nel nuovo studio, vale la pena riportare qualche informazione sugli studi condotti in ambito cognitivo. “Sebbene la loro storia antica a servizio dell’uomo sia oscura, i furetti sono stati probabilmente domesticati oltre duemila anni fa attraverso riproduzione selettiva della puzzola europea (Mustela potorius)”, scrive un gruppo di ricercatori in un articolo del 2012 che ne indaga le abilità socio-cognitive. Infatti, se la puzzola è un animale solitario, il furetto può invece convivere con i suoi consimili senza conflitti, e mostra alcuni comportamenti sociali: una differenza simile a quella che si osserva, per esempio, tra gatto selvatico e domestico. Il furetto, infatti, sembra essere capace di apprendere osservando i propri compagni, e nella specie è presente il gioco sociale.
La domesticazione sembra aver avuto un effetto sui furetti anche in termini di rapporto con l’umano: il già citato lavoro del 2012 aveva mostrato come, al contrario della controparte selvatica (un gruppo di puzzole ibride), il furetto mantiene il contatto visivo con il proprietario, lo preferisce allo sperimentatore se posto di fronte a una scelta tra i due ed è anche in grado di seguire le indicazioni di pointing (l’indicazione con il dito) del proprietario, a livelli simili di quelli osservati nel cane.
Il nuovo lavoro sulla capacità del furetto di riconoscersi allo specchio si inserisce quindi in un filone di ricerche già dedicate alle sue abilità socio-cognitive che, oltre a essere importanti per comprendere meglio le caratteristiche cognitive della specie, ci possono aiutare a migliorarne la gestione, sia negli allevamenti sia nell’ambiente domestico, quando scegliamo il furetto come pet.
Il test dello specchio
Del test dello specchio, OggiScienza ha già parlato in alcune occasioni: si tratta, in breve, di un esperimento nel quale l’animale (che non deve aver mai avuto occasione di specchiarsi prima) è posto davanti a uno specchio dopo che gli si è applicato un “marchio” (un segno colorato o un adesivo) senza che il soggetto se ne accorga. «Anche se tutti gli animali possono avere un qualche tipo di reazione di fronte a uno specchio, ciò che è importante osservare in questo test è la presenza di self-directed behaviours, cioè comportamenti che l’animale rivolge verso se stesso, per esempio per ispezionare parti del corpo che, senza l’immagine riflessa, non riuscirebbe a vedere. Più nello specifico, l’applicazione di un qualche tipo di “marchio”, come un segno di pittura, dovrebbe far sì che l’animale cerchi di eliminare la macchia», spiega Elisabetta Palagi, etologa dell’Università di Pisa che pochi mesi fa ha condotto l’esperimento sui cavalli (che hanno “superato” il test). Inoltre, poiché l’animale potrebbe cercare di rimuovere il colore solo perché la vernice lo infastidisce a livello tattile, come controllo si usa un marchio invisibile (per esempio un gel trasparente).
«Il riconoscimento allo specchio è considerato la base per la potenziale presenza della consapevolezza di sé, di ciò che distingue “me” da “l’altro”», continua la ricercatrice. «Si presume che questa capacità di riconoscersi come individui distinti dagli altri del gruppo possa essersi evoluta negli animali che vivono in gruppi sociali ben strutturati, dove comprendere il proprio ruolo e la diversità tra se stessi e gli altri individui è indispensabile per costruire relazioni a lungo termine. Si ritiene quindi che le specie sociali, che cognitivamente risultano le più complesse, siano anche quelle in cui la consapevolezza di sé sia più facilmente presente».
Naturalmente, per poter eseguire il test l’animale deve avere un certo senso della vista: per quanto riguarda il furetto, gli autori del nuovo lavoro specificano che, sebbene si basi prevalentemente sull’olfatto per distinguere i conspecifici, la specie a stretta distanza ha una buona vista, impiegata anche nella comunicazione. Per esempio, l’erezione dei peli della coda rappresenta un segnale di eccitazione (positiva o negativa) o di rabbia (in questo caso può essere accompagnata dall’inarcamento della schiena e da vocalizzazioni particolari).
«Anche se è difficile dire quali differenze vi possano essere tra l’indagare la capacità di riconoscersi negli animali selvatici e in quelli domestici, lavorare con questi ultimi presenta il vantaggio di poterli saggiare senza che soffrano troppo l’isolamento sociale; inoltre sono sicuramente più semplici da gestire», aggiunge Palagi.
Furetti allo specchio
I ricercatori hanno svolto il test con sei furetti, lavorando su tre diverse condizioni sperimentali. Nella prima, ciascun furetto era posto davanti a uno specchio oppure a una superficie non riflettente; questa condizione serviva solo per verificare il comportamento di fronte al riflesso, così da essere sicuri che eventuali differenze rispetto a quando il furetto era posto di fronte alla superficie non riflettente non dipendessero da altri stimoli. Quindi, ciascun animale è stato posto di fronte a entrambe le superfici, per capire se fosse più interessato all’una o all’altra. Infine è stato svolto il mirror test vero e proprio, marcando i furetti o con un colorante rosso (o, per finta, con l’acqua) sulla fronte, in un punto cieco.
Analizzando i risultati, emerge innanzitutto che i furetti sembrano essere più interessati dallo specchio che dalla superficie non riflettente: la spiegazione, scrivono gli autori, può essere che, semplicemente, siano attirati dai movimenti o dal “conspecifico” riflesso. In questo senso, aggiungono ancora i ricercatori, lo specchio potrebbe rappresentare una forma di arricchimento ambientale per i furetti; sarebbero tuttavia necessari ulteriori studi, anche perché, avverte Palagi: «Perché lo specchio sia un buon arricchimento ambientale, bisognerebbe prima valutare che non crei uno stato di ansia nell’animale. Infatti, vedere la figura riflessa, che si muove in contemporanea all’individuo, può essere fonte di stress e causare una perenne violazione dell’aspettativa perché l’immagine mobile, priva di odore, non appartiene comunque a un conspecifico».
Ma cosa dire del vero e proprio mirror test? Cos’hanno fatto i furetti marcati di fronte allo specchio? In effetti, rispetto alle altre condizioni (marcatura senza superficie riflettente e marcatura invisibile), i furetti con il segno colorato si annusano ed esplorano di più il proprio corpo. Si tratta di risultati che in effetti evocano la possibilità di un riconoscimento ma che in sé, scrivono gli autori, non ne forniscono la prova. Insomma, sarà necessario approfondire lo studio, con un campione più vasto.
«Gli autori sono molto cauti nel discutere i loro risultati. D’altronde, questo lavoro è importante proprio perché rappresenta un’indagine iniziale su una specie che finora non era stata valutata in questo tipo di test e dimostra che l’interesse, inizialmente concentrato sui primati, si sta allargando anche verso altre specie. Questo significa anche che dobbiamo, sempre più, prestare attenzione alle caratteristiche degli animali indagati per mettere i risultati nella giusta prospettiva: anche al di là delle differenze inter-individuali, le diverse specie possono infatti avere motivazioni differenti nel reagire allo specchio, mostrando più o meno interesse, perfino se eventualmente si riconoscono. Senza contare che non è detto che tutte reagiscano nello stesso modo alla marcatura, anche solo per quella che è la loro struttura fisica: per esempio, pulirsi con le zampe è più difficile per un cavallo che per una scimmia!», conclude Palagi. «Ma intanto, allargare la prospettiva a diverse specie ci può aiutare a comprendere se, come molti suggeriscono, in effetti questa abilità non sia distribuita secondo un principio dualistico di “presenza/assenza” ma, piuttosto, possa ritrovarsi a livelli e con sfumature differenti nelle diverse specie, secondo quello che viene definito un approccio “gradualista”», conclude Palagi.
Leggi anche: La nostra personalità può influenzare lo stress nel cane
Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.
Immagine: Pixabay