Vulcani sottomarini: si può prevedere un’eruzione?
La superficie terrestre si rinnova costantemente attraverso processi geologici, idrologici ed antropici. Il vulcanesimo è una delle forme di rimodellamento naturale più evidenti: modifica il paesaggio ed impatta sulle condizioni ambientali locali e globali. Conosciamo un gran numero di vulcani attivi sulla Terra, ce ne sono anche in Italia ma la maggior parte si trova sotto i mari. E questi ultimi sono difficili da scoprire e studiare.
La previsione delle eruzioni vulcaniche è notoriamente complicata. I vulcani sono unici, ognuno ha le proprie peculiarità e personalità. Ci sono alcuni campanelli di allarme che aiutano a prevederne il comportamento, come l’intensità dell’attività sismica, leggeri rigonfiamenti della superficie, piccole variazioni nel flusso di calore, l’emissione di fumi anche dal terreno circostante, l’espansione delle pozze di magma e il rilascio di gas. Ma, mentre questi indizi sono generalmente abbastanza chiari per i vulcani subaerei (ossia quelli emersi), per quelli sottomarini è più complicato. E la maggior parte dei vulcani attivi del nostro pianeta si trova proprio sommersa negli oceani. Monitorarli è una sfida tecnica perché gli effetti della loro attività si palesano in superficie solo quando ormai l’eruzione è già iniziata, ma possono creare situazioni pericolose e potenzialmente letali e ostacolare la navigazione di navi e aerei.
Una recente ricerca potrebbe offrire nuovi spunti per l’attività di monitoraggio, analizzando il colore dell’acqua del mare dalle immagini satellitari.
I vulcani sottomarini
I vulcanologi distinguono i vulcani sottomarini situati nell’oceano a profondità maggiori di 500-1000 metri da quelli nei mari poco profondi, perché gli effetti della pressione idrostatica cambiano drasticamente lo stile del vulcanismo. Questi ultimi generalmente eruttano vicino alla terraferma (ad esempio il Surtsey, al largo della costa islandese) e spesso la loro attività è ben visibile. Le eruzioni profonde, invece, di solito non possono essere viste dalla superficie, si verificano più lontano dalla terraferma e richiedendo strumenti specializzati per essere rilevate.
Un esempio famoso di vulcano sottomarino, per fortuna dormiente, ce lo abbiamo in casa. Si tratta del Marsili, il vulcano sommerso più grande d’Europa e del Mediterraneo, localizzato nel Tirreno tra Palermo e Napoli che, secondo gli studi più recenti, sarebbe ancora in grado di eruttare. È lungo circa 70 chilometri e largo 30 e copre un’area di circa 2.100 chilometri quadrati. Con la cima a poco più di 500 metri sotto il livello del mare. Ma solo nel Tirreno ce ne sono molti altri degni di nota di cui ancora sappiamo poco, come il Vavilov, tra la penisola italiana e la Sardegna, 160 chilometri a sud-ovest del golfo di Napoli; il Magnaghi, 70 chilometri più ad ovest del Vavilov; Palinuro, a circa 65 chilometri dalle coste del Cilento e poi alcuni più piccoli come il Glauco, Eolo, Sisifo, Enarete.
I metodi utilizzati dai vulcanologi per studiare i vulcani sottomarini includono osservazioni in situ con sommergibili con equipaggio o veicoli automatizzati, fotografia, campionamento dell’acqua in superficie, osservazioni satellitari e monitoraggio tramite stazioni di ascolto idrofoniche. E, ovviamente, reti informatiche di condivisione dati e sistemi di navigazione e geolocalizzazione. Unitamente, le informazioni vengono combinate con le conoscenze geologiche, geofisiche e ambientali. In pratica, proprio come avviene in altri ambiti scientifici, nello studio dei vulcani sottomarini convergono molte discipline diverse, microbiologia, chimica, mineralogia, geofisica, geologia, oceanografia e vulcanologia. E alcune di esse si sono sviluppate solo di recente. Come l’oceanografia, che cambiò radicalmente dopo la seconda guerra mondiale, con l’avvento della mappatura sonar (ecoscandaglio) che rese molto più facile determinare la profondità del fondale marino e la sua morfologia. Fu allora che venne scoperto il sistema globale di dorsali medio-oceaniche (che ora sappiamo essere lungo più di 60.000 chilometri) e venne rivelato un vasto numero (molte migliaia) di montagne sottomarine. Quasi tutte, vulcani.
La nuova ricerca si concentra sulle eruzioni profonde, che sono più difficili da rilevare e studiare: in particolare sull’isola di Nishinoshima in Giappone, che ha manifestato una recente e prolungata attività vulcanica.
Il colore rivelatore
Nishinoshima si trova nelle Isole di Ogasawara, a 27°15′ N e 140°52,5′ E, a circa 1000 chilometri a sud di Tokyo, in Giappone. L’eruzione è iniziata nel novembre 2013, dopo 40 anni di dormienza ed è proseguita fino a novembre 2015, generando circa 8,7 × 107 m3 di lava sul livello del mare, aumentando le dimensioni dell’isola di 13 volte circa.
L’eruzione più recente è iniziata nel dicembre 2019, con ulteriori eruzioni che sono continuate fino a metà agosto 2020, dopodiché l’attività eruttiva è cessata. Per tutto il 2020, le acque marine circostanti sono apparse di colore giallo-marrone, giallo-verde e marrone. Questi effetti sono noti: quando i vulcani sottomarini stanno per eruttare o eruttano, rilasciano gas e altri composti, tra cui ferro (Fe), alluminio (Al) e silicio (Si), che influenzano la composizione dell’acqua marina, modificandone il colore.
Yuji Sakuno, professore associato all’Università di Hiroshima, ha lavorato su questi dati per trasformarli in modelli predittivi.
«Sebbene la relazione tra la composizione chimica dell’acqua di mare scolorita e l’attività vulcanica sia nota da molto tempo, ci sono stati pochissimi studi quantitativi sulla composizione chimica stessa che sono stati condotti utilizzando il telerilevamento», scrive nel documento.
Generalmente, una proporzione maggiore di Fe produce un colore giallo o marrone, mentre una proporzione maggiore di Al o Si produce un colore bianco. «Sono stati fatti vari tentativi da foto aeree ma nessuno finora è riuscito ad ottenere una chiara quantificazioni degli elementi estrapolata dall’RGB dell’immagine»
Tuttavia, negli ultimi anni, sono entrati in servizio diversi satelliti globali come Terra e Aqua con a bordo lo spettroradiometro MODIS (Moderate Resolution Imaging Spectroradiometer), Sentinel-3 con l’Ocean and Land Colour Instrument (OLCI) ed il Second Generation Global Imager (SGLI) a bordo del satellite Global Change Observation Mission-Climate (GCOM-C).
SGLI, lanciato dal Giappone nel dicembre 2017, è un sensore ottico in grado di effettuare osservazioni a lunghezze d’onda che vanno dal vicino ultravioletto all’infrarosso termico (da 380 nm a 12 µm) e può rilevare lo stato di polarizzazione della luce nella banda del rosso e del vicino infrarosso.
Avendo un ciclo di osservazione breve (2-3 giorni), ha fornito importanti informazioni per lo studio di Sakuno.
L’obiettivo era sviluppare un modello relazionale dell’attività vulcanica nell’isola di Nishinoshima, tra il colore dell’acqua di mare e la composizione chimica intorno al vulcano sottomarino utilizzando lo spazio colore CIE XYZ ed i dati satellitari.
Combinando le immagini GCOM-C con le informazioni sulla temperatura all’interno del cratere provenienti dal satellite meteorologico giapponese Himawari-8, Sakuno è stato in grado di notare cambiamenti nel colore dell’acqua del mare circa un mese prima dell’attività vulcanica sull’isola di Nishinoshima.
Rispetto agli studi precedenti, il nuovo metodo sembra sia riuscito a trovare il modo per misurare accuratamente il colore dell’acqua, nonostante la riflessione della luce solare che altera la percezione e crea distorsione.
«In futuro», ha affermato Sakuno, «vorrei stabilire un sistema in grado di prevedere le eruzioni vulcaniche con maggiore precisione in collaborazione con la Japan Aerospace Exploration Agency (JAXA), la Maritime Security Agency, che sta monitorando i vulcani sottomarini e relativa ricerca».
Prevedere è difficile
La ricerca di Sakuno mirava a derivare un modello relazionale tra il colore dell’acqua di mare e la composizione chimica della stessa, utilizzando il sistema colorimetrico CIE XYZ e a esaminare la prevedibilità dell’attività vulcanica nell’isola di Nishinoshima mediante GCOM-C SGLI.
I risultati ottenuti sono importanti: è stata trovata una correlazione significativa tra il colore dell’acqua di mare e la composizione chimica; la fluttuazione della temperatura massima dell’acqua rilevata da Himawari-8 intorno all’isola di Nishinoshima corrispondeva bene all’attività vulcanica; la distribuzione di (Fe + Al)/Si, derivata dal colore tramite i dati SGLI, ha oscillato significativamente appena prima che riprendesse l’attività vulcanica (circa un mese prima). Ma ovviamente sarà necessario validare l’efficacia del metodo proposto con ulteriori studi ed altri monitoraggi.
Il dr. Guido Ventura, vulcanologo presso l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), non coinvolto nello studio, ha commentato per OggiScienza: «I risultati dello studio di Yuji Sakuno riguardano la capacità delle osservazioni satellitari e in particolare, i cambiamenti di colore nell’acqua del mare, per rilevare le variazioni chimiche legate al vulcanismo. Questo tipo di osservazioni satellitari vengono applicate di routine allo studio dei vulcani attivi e l’articolo di Sakuno aggiunge un nuovo parametro da analizzare specificamente per i vulcani sottomarini. È noto che i vulcani subaerei e sottomarini rilasciano gas come anidride carbonica e anidride solforosa in grado di modificare la composizione chimica e, di conseguenza, il colore dei laghi e dell’acqua di mare. Pertanto, le variazioni nei colori dell’acqua possono essere associate a variazioni maggiori o minori nel flusso dei fluidi idrotermali rilasciati dai vulcani sottomarini.».
«Tuttavia», ha sottolineato, «non tutti gli aumenti osservati nel flusso di tali fluidi sono seguiti da un’eruzione. In tal senso, questi cambiamenti possono anticipare o meno un’eruzione, a seconda di diversi fattori tra cui la profondità della camera magmatica e della zona di stoccaggio dei fluidi sovrastante (il sistema idrotermale caldo), l’innalzamento (o meno) del magma che alimenta i processi di degassaggio, ecc. In tal senso, le variazioni osservate del colore dell’acqua di mare non sono considerate, da sole, dei precursori. Comunque, testimoniano che si verificano alcuni cambiamenti nel sistema vulcanico e questo è importante quando si studiano i processi che anticipano una potenziale eruzione. Questi processi sono generalmente accompagnati da un aumento della sismicità e delle deformazioni.
Tenendo conto di tutti questi fattori, lo studio di Sakuno rappresenta un metodo aggiuntivo e promettente per studiare i processi vulcanici sottomarini attivi e, insieme ad altri dati geofisici, geologici marini e geochimici, per valutare possibili eruzioni imminenti».
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