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Guida pratica alla costruzione di universi – Parte IV

È nata prima la storia o l'universo?

Molto probabilmente, se vogliamo creare un mondo, è perché vogliamo viverci o perché vogliamo che qualcuno ci viva. E se qualcuno ci vive, c’è da augurarsi che ogni tanto gli succeda qualcosa degno di essere ricordato. In altre parole, dovrebbero nascere delle storie.

È nata prima la storia o l’universo?

La nostra Terra è piena di storie, di eventi piccoli e grandiosi, tenui e terrificanti e, in molti casi, dal punto di vista narrativo, non ha nemmeno troppo senso chiederci se nasce prima l’universo o le storie che accadono in quell’universo, dato che le due cose si influenzano vicendevolmente: sono gli eventi che creano l’universo, che lo rendono ciò che è; ma a loro volta gli eventi vengono partoriti da quello che è l’universo in quel frangente.

Insomma, per farla breve, in molti casi è difficile (e anche inutile) scindere le storie dal mondo in cui queste storie si realizzano e quindi chiedersi, anche per quanto riguarda le narrazioni fittizie di mondi fittizi, se è nata prima la storia o l’universo: è un po’ come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina. Esistono però dei casi, in narrativa, in cui questo meccanismo di vicendevole creazione è sbilanciato più da una parte o dall’altra. Ci sono perciò storie che hanno creato universi e viceversa universi che vivevano benissimo anche senza storie (o meglio, senza che ad alcune storie di questo universo venisse data particolare importanza). Esamineremo, in questo articolo e nel prossimo, due casi notevoli di queste tipologie: il binomio “Pandora/Avatar” e quello “Il Signore degli anelli/Terra di mezzo”. Casi notevoli sia perché stiamo parlando di storie e universi molto famosi, sia perché la loro costruzione appare piuttosto singolare.

L’animalico, anzitutto

John Reul Ronald Tolkien (1892-1973) era un linguista, per passione, formazione, professione: insegnò per anni all’università di Oxford, fu autore di importanti articoli accademici nonché collaboratore dell’Oxford English Dictionary. Oltre a parlare varie lingue e a leggerne molte altre (con una certa predilezione per le lingue morte) Tolkien nutriva un forte interesse per una categoria di lingue piuttosto insolita, almeno ai suoi tempi: quella delle lingue inventate. Anzi, forse uno dei fatti che avvicinò un giovanissimo J.R.R. alla linguistica fu l’aver ascoltato due bambini che parlavano in “Animalico”, una strana lingua inventata da loro che consisteva nel dire qualsiasi cosa usando solo numeri e nomi di animali.

La passione per le lingue continuò a crescere in Tolkien negli anni della giovinezza: studente particolarmente dotato, ebbe una brillante carriera accademica e divenne docente universitario, si appassionò all’Islandese antico e iniziò a leggere i canti dell’Edda in lingua originale, trascinando in questa passione anche l’amico C.S. Lewis (il creatore del ciclo di Narnia); oltre alle lingue esistenti, però, Tolkien continuò a inventarne di sue (egli stesso definirà questo il suo “vizio non troppo segreto”). Ma a differenza dell’Animalico (o, se vogliamo, anche dell’Esperanto) le lingue che Tolkien creava ora non ambivano a essere strumenti funzionali alla comunicazione; erano semplicemente gli idiomi di popoli che non erano mai esistiti e con cui questi popoli raccontavano le loro leggende.

Mano a mano che queste lingue si sviluppavano, nella mente e negli appunti di Tolkien, queste lingue acquisivano spessore e realismo; parallelamente, e per riflesso, diventavano più vividi, precisi, reali i popoli che parlavano queste lingue e il mondo dove questi popoli vivevano. Le lingue forgiavano i popoli e le loro storie. Probabilmente, in questo meccanismo di creazione, Tolkien riadattava e utilizzava lo stesso meccanismo che usava studiando lingue lontane: mentre imparava l’Islandese antico, non da un manuale ma da documenti autentici, lo studioso assorbiva inevitabilmente oltre alle parole e alle strutture grammaticali le storie, i miti, il modo di pensare, il suono e il sapore della lingua di quel popolo.

Insomma, per un linguista come Tolkien, una storia per essere raccontata ha bisogno di una lingua che la racconti e quindi la storia non può essere il punto di partenza. Afferma lo scrittore: “Io trovo la creazione dei linguaggi e la relazione tra di essi un piacere estetico in sé, a prescindere dal Signore degli Anelli che era ed è tutt’ora una creazione dipendente da questi” o ancora “l’invenzione della lingua è il fondamento primario; i miei racconti sono tutti elaborati più per fornire un mondo alla lingua che viceversa. Per me prima viene un nome e poi una vicenda”. Il mondo della Terra di mezzo nasce quindi dalle parole, dai nomi e dal suono; da parole che devono essere evocative e creatrici (un po’ come formule magiche, se vogliamo), belle: quello che più affascina Tolkien nelle lingue che studia è il suono delle parole, ed è per questo che è spesso attratto da lingue che non conosce, a cui può approcciarsi, prima di tutto, a livello sonoro e musicale, senza che il suono di una parola venga “inquinato” e filtrato dalla comprensione del suo significato. Ma le parole acquisiscono bellezza anche dal loro essere reali. E per essere reale una parola deve far parte di una lingua, con delle regole, una grammatica, dei dialetti e delle varianti, un suo sviluppo, una sua crescita, dei gerghi, delle influenze e prestiti da altre lingue. Tolkien nel suo processo di creazione fa tutto questo: solo una lingua realistica può creare un mondo realistico.

La creazione di lingue più o meno elaborate, dalle sonorità più o meno caratteristiche e in grado di rispecchiare il modo di pensare di un popolo, diventerà dopo Tolkien una sorta di standard nella letteratura fantastica (dalle lingue di Star Trek a Cameron che ingaggia il linguista Paul Frommer per dare una lingua ai Na’vi di Avatar, passando per il latino maccheronico di Harry Potter), tanto è vero che esistono veri e propri manuali per la creazione di lingue artificiali: alcuni autori di fantasy e fantascienza (come Cristopher Paolini, l’autore del ciclo di Eragon) non fanno mistero di averne fatto ricorso.

Creare una lingua

La lingua è un sistema di comunicazione orale condiviso e compreso da una comunità di parlanti. Semplificando, possiamo dire che ogni lingua usa dei suoni e non altri e ha una sua cadenza (tratti studiati dalla fonologia) usa delle parole (lessico) e delle regole (grammatica) proprie, e viene usata in modi diversi a seconda delle circostanze (pragmatica). Ogni lingua inoltre può essere rappresentata da un sistema di segni (alfabeto), ma non è necessario che lo sia. Molte lingue sono nate, vissute e morte senza che nessuno abbia mai sentito l’esigenza di trascriverle.

Se voleste creare una vostra lingua, i consigli che vi possiamo dare sono anzitutto incuriosirvi sulle varietà di lingue che esistono sulla Terra: alcuni aspetti che noi consideriamo imprescindibili in una lingua (per esempio la presenza di sostantivi o di aggettivi) non sono presenti in tutti i linguaggi; alcuni suoni prodotti da schiocchi della lingua (i cosidetti click) hanno un valore fonetico ben preciso in alcune lingue africane; alcune distinzioni che per noi sembrano di buon senso (per esempio la dicotomia maschile/femminile) non sono presenti in alcune lingue che classificano le parole secondo altre categorie. Lo swahili, per esempio, ha addirittura otto generi, che non hanno nulla a che vedere con la distinzione maschile e femminile: un genere è riservato agli esseri viventi, un altro agli oggetti, un terzo ai concetti astratti e così via).

Per comprendere quanto alcune lingue terrestri possano risultare aliene è interessante citare il caso dei Code Talkers Navajo: l’esercito statunitense, nella seconda guerra mondiale, affidò a soldati di questa etnia il fondamentale compito di comunicare in codice i messaggi segreti. I Navajo, semplicemente parlando nella loro lingua, si dimostrarono più rapidi della macchina Enigma della concorrenza tedesca e, soprattutto, inviolabili. I Giapponesi, al termine della guerra, ammisero che non avevano compreso nulla del codice segreto americano (che in realtà era una lingua).

Ricordate poi che una lingua evolve, si contamina e, soprattutto, rispecchia il modo di pensare di un popolo, la sua visione del mondo e della vita. Un interessante caso, da questo punto di vista, è quello che troviamo nel film di Villeneuve The arrival, di cui non spoileriamo nulla.

In questo caso la comunicazione avviene solo in forma scritta, ma è fondamentale anche tenere sempre in considerazione le sonorità della lingua: Tolkien trovava orrenda la parola “sky” (e in effetti suoni simili li troveremo nelle lingue degli orchi) e massimamente evocativa “cellar door” (che in realtà non significa niente di particolarmente poetico: la porta della cantina). Se volete creare una lingua nuova, preoccupatevi subito di darle un suono: il modo più semplice per farlo è eliminare dei fonemi, lo fanno tutte le lingue. Per fare esempi banalissimi noi non diamo valore distintivo alle vocali aperte o chiuse, l’Inglese non ha il suono “gn” di “pigna”, gli ispanofoni tendono a non distinguere la “b” dalla “v”.

L’Italiano, a differenza di molte lingue orientali, non fa un grosso uso dell’accento melodico, se non nelle frasi interrogative (a differenza per esempio dell’Inglese, l’interrogativa italiana usa le stesse parole nello stesso ordine rispetto all’affermativa, è l’intonazione melodica a farci capire che stiamo facendo una domanda). Molte lingue tendono a far cadere l’accento delle parole sempre sulla stessa sillaba (detta tonica). L’Italiano predilige le parole piane (accento sulla penultima sillaba) ma, a differenza del francese e del polacco, per esempio, l’accento può cadere su altre lettere. Esistono lingue che pongono di preferenza la tonica sulla prima sillaba (inglese e tedesco), sulla terzultima sillaba o anche sull’ultima (parole tronche, come il persiano e l’ebraico).

Quando inventiamo una lingua è utile riflettere anche su questi particolari: sui suoni che una lingua non pronuncia e sulla sua cadenza. Sforzarsi di modificare questi parametri rispetto alla nostra lingua madre, uscire dalla comfort zone, è un primo passo per non produrne una brutta copia ma qualcosa di diverso e con delle potenzialità diverse.

Se intendiamo creare una lingua per una comunità aliena, potremmo tenere in considerazione altri elementi: se presupponiamo che gli alieni abbiano una bocca, una cavità orale allungata potrebbe portare a più punti di articolazione dei suoni (altri fonemi, altre vocali); l’assenza di naso invece precluderebbe la possibilità di articolare suoni nasali (come la n), l’assenza di labbra le labiali; l’assenza di denti precluderebbe la pronuncia di “t,d,n”, renderebbe difficile la pronuncia della “f”, Se poi gli alieni avessero altri organi (o altre bocche) con cui articolare suoni, potrebbero sviluppare un sistema di comunicazione polifonico (probabilmente la componente melodica, in questo caso, avrebbe molta importanza).

Queste considerazioni possiamo spostarle anche su altri aspetti della lingua: siamo sicuri di volere una lingua flessiva o isolante (come l’Italiano e l’Inglese) e non preferire una lingua agglutinante (come il finlandese o il turco o l’eschimese?).

Il significato generale della parola deve essere per forza in una radice “stabile” a inizio parola? In Italiano la radice “mang” fa riferimento al cibo ma per esempio, nelle lingue semitiche, la radice di una parola è data dalle sue consonanti: cambiando le vocali che ci stanno in mezzo cambiamo il significato delle parole. Ad esempio in ebraico la radice *gdl dà il senso di “grandezza”: la parola gadol significa “grande (maschile)”, la parola gadal significa “egli crebbe”, la parola godel significa “dimensione”, e così via.

Potrebbe essere interessante chiedersi se, quando parla, una determinata civiltà usi i nostri stessi criteri logici, partendo dai più basilari. Senza andare a cercare casi molto esotici il latino possiede, a differenza dell’italiano due modi per dire “o”: vel (inclusivo, traducibile con e/o ) e “aut” esclusivo (traducibile con o). Oltre che sulle congiunzioni, se si lavora sulla lingua scritta, potrebbe essere interessante lavorare sui segni di interpunzione. Anche questi sono tutt’altro che universali, per cui potremmo chiederci se in una civiltà hanno senso concetti come quelli espressi dal punto, dalla virgola, dal punto esclamativo (alcuni, come quello sotteso al punto e virgola, lo stiamo perdendo proprio per leggi di semplificazione evolutiva) o se a questi non se ne possano aggiungere altri. Tutti capiamo senza problemi le frasi “porta a spasso il cane!”; “porta a spasso il cane.” e “porta a spasso il cane?” Chiediamoci cosa potrebbe voler dire: “porta a spasso il cane@”.

L’importanza dei fogli bianchi

Ma torniamo a Tolkien: le leggende e le lingue che andava creando confluivano in un grosso quaderno di appunti, infarcito di mappe, disegni, tavole cronologiche, alberi genealogici e appunti di ogni sorta su usanze e caratteristiche di popoli e di razze lontane. Eppure questo mondo rischiava di rimanere inerte, senza una storia che venisse raccontata in dettaglio. La scintilla arrivò, come succede spesso, casualmente un giorno d’estate del 1928 in cui il Tolkien narratore per pochi intimi e bambini, incontrò il Tolkien creatore di lingue, miti e universi, durante un momento di lavoro del Tolkien professore.

Lo scrittore racconta che, mentre stava correggendo delle verifiche, si accorse che “uno dei candidati aveva lasciato una delle pagine del compito in bianco, la cosa migliore che possa capitare a un esaminatore. Io ci scrissi sopra «In una caverna sottoterra viveva un Hobbit». I nomi spesso facevano scaturire dalla mia mente una storia. Alla fine pensai che fosse meglio scoprire a che cosa assomigliassero gli Hobbit e questo non fu che l’inizio”. Per un amante della lingua e delle parole, per uno dei fondatori di un club (gli Inklings) dove si parlava con entusiasmo di etimi e di toponimi, trovarsi di fronte a una parola nuova e misteriosa che proveniva sì dalla sua testa ma di cui non comprendeva l’origine, era una sfida troppo stimolante.

Frugando nella sua fantasia Tolkien “scoprì” un sacco di cose sugli Hobbit, sebbene gli continuasse a sfuggire l’etimologia del nome: erano un popolo di esseri bassi, gioviali, amanti del cibo e del buon vivere ma capaci di essere incredibilmente silenziosi e dediti al sacrificio quando necessario. Gli Hobbit abitavano in un luogo della Terra di Mezzo chiamato la Contea: un posto nel complesso insignificante, lontano dai grandi regni e dai luoghi dove passava la Storia, felicemente ignorati da tutti, a parte dallo stregone Gandalf che, per motivi difficili da capire, vorrà proprio un hobbit, Bilbo Baggins, nel gruppo che partirà alla ricerca di un favoloso tesoro. Fu così che dopo 5 anni di lavoro Tolkien aveva tratto da una frase inizialmente senza senso un romanzo, che aveva per protagonista uno Hobbit per l’appunto, e che divenne in breve un classico dell’infanzia e non solo.

Ne Lo hobbit è presente tutto il campionario di creature della Terra di mezzo, e che poi diventeranno lo standard del fantasy: troll, orchi, elfi, draghi e ragni giganti. È presente insomma una Terra di mezzo già matura, dettagliata e coerente: d’altra parte, come già detto, Tolkien a questo universo ci lavorava da anni.

Visto il successo dello Hobbit Tolkien fu invitato dal suo editore Stanley Unwin a scriverne un seguito: lo scrittore decise di partire da una festa di compleanno di Bilbo ma ben presto si impelagò: gli hobbit facevano un sacco di cose divertenti durante questo compleanno ma mancava qualcosa che potesse dare una decisa spinta narrativa. Poi Tolkien ebbe un’idea: perché non riprendere un episodio marginale della storia di Bilbo, come il ritrovamento dell’anello? Nacque così la storia di cui quasi tutti hanno sentito almeno una volta parlare, di Frodo, nipote di Bilbo, che deve lanciare l’anello del potere tra le fiamme del monte Fato, per annientare il male supremo.

Graal rovesciati ed elfi gonfiati

Quindi, curiosamente, Il Signore degli anelli, l’opera che renderà famoso l’universo della Terra di mezzo, non nacque da una precisa e a lungo pianificata volontà di Tolkien (anche se poi la scrittura del suo capolavoro lo impegnerà per una decina di anni), ma quasi da una serie di coincidenze e spinte editoriali. Paradossalmente, se Unwin avesse pubblicato il Silmarillion, opera inizialmente proposta da Tolkien come seguito de Lo hobbit forse Tolkien non avrebbe sentito la necessità di scrivere Il Signore degli anelli. Avremmo insomma una Terra di Mezzo più dettagliata, un universo più completo, ma senza l’opera ambientata in esso che lo fece conoscere al mondo intero (e forse questo a Tolkien, vero costruttore di mondi e creatore di universi a prescindere, non interessava nemmeno troppo).

Un altro aspetto da tenere in considerazione è che i modelli usati da Tolkien (a differenza di molta fantasy successiva) sono – spaventosamente – classici, a volte archetipici: l’attraversamento della terra dei morti che dovrà affrontare Aragorn è presente in tutti i poemi fondanti la cultura occidentale; il ritorno alla Contea, al termine del Signore degli Anelli è ispirato al ritorno ad Itaca di Ulisse. Eppure questi modelli vengono reinterpretati, a tratti rovesciati, modificati in un aspetto importante così da farli diventare altro. Per esempio l’idea dell’oggetto magico dall’enorme potere è ripresa dalla leggenda medievale per eccellenza, la ricerca del Graal. Ma Tolkien ribalta questa storia: il Graal (l’anello), in questo caso non è da ritrovare ma da buttare via.

Tolkien riprende le figure degli elfi dalle tradizioni fiabesche più ancestrali, ma costruisce i suoi Eldar modificandone un particolare: egli non riusciva ad accettare che gli elfi fossero creature minuscole. Una delle sue maggiori invenzioni è stata quella di ingrandirli, fino a farli diventare alti come gli uomini, lasciando inalterate molte delle loro caratteristiche cantate dal folklore, tra cui il loro particolare rapporto con la morte. Il momento di maggior rottura con la tradizione è comunque l’aver scelto come centro delle vicende dei suoi romanzi il più improbabile dei protagonisti, cioè un hobbit. Improbabile non solo perché gli hobbit sono ignoti alle tradizioni popolari ma soprattutto perché gli hobbit, a ben vedere , sono un elemento di stonatura, sono discronici rispetto al resto del mondo descritto (portano il panciotto, vestono come dei borghesi ottocenteschi nonostante degli enormi orrendi e scalzi piedi pelosi). In una parola, sono “sbagliati” rispetto al tempo del resto della storia, se è vero che il punto di partenza di Tolkien, nel disegnare la Terra di Mezzo, è una sorta di mondo antico precristiano. Come d’altra parte era “sbagliato” (e fiero di esserlo) Tolkien per il suo tempo: ben conscio di essere vestito assolutamente fuori moda e convinto antimodernista.

Bilbo c’est moi

In un’intervista Tolkien disse “sono un hobbit in tutto e per tutto, a parte la statura”: l’ultimo spunto per stimolare la creatività del lettore è tanto scontato quanto importante; la creazione artistica è spesso una trasfigurazione della propria realtà, una reinterpretazione di sé e di quello che ci succede attorno, della propria vita (cosa diversa che un prendere semplicemente spunto); lo vedremo anche per molti altri creatori di universi. L’abilità sta nel saper trasfigurare del materiale già esistente, per renderlo magico. E sebbene Tolkien dica – e in parte possiamo essere d’accordo – che non c’è niente di più stupido per capire un’opera che leggere la biografia del suo autore, tracce di vita di Tolkien le troviamo in tutta la sua opera, e tracce della sua opera nella sua vita.

I biografi si sono divertiti a ricondurre elementi biografici del professore di Oxford ai suoi racconti: le brutte esperienze con le tarantole, durante l’infanzia in Sud Africa, vengono in qualche modo esorcizzate con Shelob e i ragni giganti di Bosco Atro; il gusto del viaggio e dell’avventura in luoghi meravigliosi ed esotici sarebbe invece stato suscitato da un rapimento simbolico subito dal piccolo J.R.R. a opera di un servitore, sempre in Sud Africa, l’amore per la giovane Edith Bratt (che poi divenne sua moglie) contrastato dai rispettivi tutori viene trasfigurato nella difficile storia d’amore di Beren e Luthien (sulle tombe di Tolkien e Edith verranno incisi proprio questi due nomi). E rivediamo Tolkien in Bilbo quando questi, nel Signore degli anelli, lascerà a Frodo il libro delle sue memorie e con esso il compito di concludere e organizzare le sue carte (è effettivamente ciò che farà il figlio Christopher con il Silmarillion); Tolkien è Bilbo quando, nonostante tutto, malgrado l’essere coinvolto in mille avventure (tra cui una guerra mondiale), vuole avere – e riesce a ottenere – una vita tranquilla.

E ora tocca a voi!


Leggi anche: Guida pratica alla costruzione di universi – Parte III

Articolo pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.   

Disegni: Federica Moro

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Carlo Rigon
Di formazione umanistica, ha conseguito il Master in Comunicazione della scienza presso la SISSA di Trieste. Insegnante, si occupa con scarso successo e poca costanza di tante cose. Tra i suoi progetti più riusciti un "museo del dinosauro giocattolo", ora chiuso.