I cani riconoscono le azioni volontarie da quelle involontarie?
Uno studio ha indagato la capacità dei cani di discriminare tra azioni che compiamo volontariamente e non, suggerendo che in effetti i cani abbiano questa capacità, posta in relazione con la teoria della mente. I loro risultati sono importanti anche per la relazione che abbiamo con i cani
Quante volte ci è capitato di pestare per sbaglio la coda al nostro (o a un altro) cane? Istintivamente, di solito, ci profondiamo in scuse; ma il cane capisce che non l’abbiamo fatto apposta? Più in generale, possiamo girare la domanda e chiederci se i cani siano in grado di distinguere tra azioni volontarie e involontarie. È ciò che ha fatto un gruppo di ricercatori tedeschi: il loro lavoro, recentemente pubblicato su Scientific Reports, suggerisce che in effetti i cani abbiano questa capacità. E sebbene questo risultato avrà bisogno di ulteriori indagini per essere confermato e approfondito per comprenderne le caratteristiche, è già un importante elemento di riflessione non solo in termini strettamente di ricerca scientifica ma anche, in termini più applicativi, per la nostra relazione con i cani.
L’hai fatto apposta?
La capacità di assegnare le intenzioni a un altro individuo è uno degli elementi centrali della teoria della mente, ossia il riuscire attribuire stati mentali agli altri individui. Confrontandosi quotidianamente con noi, i cani assistono di continuo ad azioni volontarie e non alle quali rispondono; finora, però, non era mai stata indagata la loro capacità di discernere tra quelle volontarie e quelle involontarie, e dunque non è chiaro se la loro risposta dipenda solo dal risultato dell’azione stessa o anche dalla volontarietà che vi può stare dietro. Da una parte, gli studi mostrano che i cani sanno reagire in modo coerente agli stati mentali umani: per esempio, valutano il nostro stato di attenzione per decidere se obbedire a un ordine, chiederci del cibo o… rubarlo! Tuttavia, la questione è meno chiara quando si guarda alla loro capacità di comprendere gli obiettivi di un altro individuo, in particolare quelli definiti intentions-in-action, ossia le intenzioni di azioni in atto alla base delle quali si presuppone una volontarietà: nel loro studio, gli autori fanno l’esempio di una persona stesa sul prato, che può essersi coricata volontariamente oppure ritrovarsi a terra perché è inciampata.
Per studiare la capacità dei cani di distinguere le azioni volontarie da quelle involontarie, i ricercatori hanno impiegato un paradigma sperimentale chiamato Unwilling vs Unable (che potremmo tradurre come “riluttante vs non in grado”), già impiegato non solo negli umani ma anche in alcuni primati, nel pappagallo cinerino e nel cavallo. Nella versione adattata per il cane, consiste in una barriera di plexiglass posta tra il cane e lo sperimentatore; la barriera presenta al centro una fessura, attraverso la quale lo sperimentatore può passare dei bocconi di cibo. Quindi sono state messe in atto tre diverse condizioni: nella prima (unwilling, “riluttante”), lo sperimentatore ritirava volontariamente il boccone, impedendo al cane di prenderlo; nelle altre due (unable), lo sperimentatore fingeva di non essere in grado di passare il cibo, o perché gli scappava di mano o perché la fessura nella barriera risultava bloccata. In tutti i casi, il boccone veniva lasciato davanti alla barriera, in modo che il cane potesse vederlo.
Il test è stato condotto su 51 cani: «Ci aspettavamo che, se sono in grado di assegnare delle intenzioni all’azione in corso, avrebbero mostrato reazioni differenti nella condizione “riluttante”, in cui lo sperimentatore mostra volontariamente di non fornire il cibo, rispetto alle condizioni “non in grado”, in cui lo sperimentatore mostra di non esserne in grado», spiega in un comunicato Juliane Bräuer, coordinatrice dello studio. «E questo è proprio ciò che abbiamo osservato». Infatti, i ricercatori avevano ipotizzato che, quando lo sperimentatore non passa volontariamente il boccone, il cane avrebbe impiegato più tempo ad avvicinarsi e a cercare di prenderlo da solo (perché avrebbe previsto di non riceverlo) rispetto alle due condizioni unable, in cui invece il cane avrebbe capito che il cibo era proprio destinato a lui. È proprio quanto mostra l’analisi delle risposte comportamentali osservate; inoltre, non solo i cani nella condizione unwilling attendevano di più prima di cercare di prendere il boccone ma tendevano anche a sedersi o sdraiarsi, due azioni legate ai segnali di calma, e smettevano di scodinzolare.
Verso altri studi
Dai risultati dello studio, insomma, sembra emergere che in effetti i cani siano in grado di discriminare tra azioni umane volontarie e non, e che dunque possiedono almeno questo elemento legato alla teoria della mente. Gli autori stessi riconoscono, tuttavia, che i loro risultati vanno “maneggiati con cura” e bisogna prestare attenzione ad alcuni possibili limiti: per esempio, la grande interazione che i cani hanno con noi potrebbe portarli ad associare alcuni movimenti o espressioni con una determinata reazione “puoi (o non puoi) prendere il cibo”. In questo senso, il cane potrebbe aver imparato che se il boccone non gli viene dato immediatamente deve sedersi e aspettare (e quanti insegnano al cane a stare seduto proprio con questo sistema?). Oppure la presenza dello sperimentatore, quindi di un individuo poco conosciuto, potrebbe renderli più propensi a esitare nella condizione “riluttante”. Come spesso avviene, insomma, gli autori avvertono che saranno necessari altri studi per confermare il risultato e approfondirlo. In particolare, scrivono, sarebbe importante capire come le indicazioni vocali (per esempio di sorpresa quando lo sperimentatore si fa “scappare di mano” il boccone) influenzino la reazione del cane, e anche ripetere il test con i lupi, per capire se questa capacità è emersa con la domesticazione o è già presente nel conspecifico selvatico ed è stata semplicemente allargata a livello interspecifico per comprendere le intenzioni umane.
«D’altronde, la scienza avanza proprio rispondendo ai diversi dubbi e domande, per cui anche i limiti evidenziati da questo studio saranno importanti per comprendere se davvero, e in che termini, i cani hanno la capacità di distinguere azioni umane volontarie e involontarie», commenta Biagio D’Aniello, professore associato all’Università di Napoli Federico II e direttore del Laboratorio di Etologia Canina. «Comunque, alcuni studi hanno già mostrato che il cane potrebbe avere alcuni elementi della teoria della mente, per esempio ha la coscienza di esistere. Infatti, sebbene non si riconosca davanti ad uno specchio, si riconosce olfattivamente (si è visto che si sofferma molto più sulle marcature di urina degli altri cani che sulle proprie), per cui non è così inaspettato che abbia i rudimenti per stati mentali agli altri».
«Ma l’importanza di questi lavori non è solo in termini di evoluzione e cognizione: possono infatti avere anche importanti ricadute sulla nostra relazione con i cani», conclude D’Aniello. È il caso citato a inizio articolo, quando pestiamo senza volere la coda del cane. «In questo esempio, pensiamo a quanto sarebbe importante sapere che il cane la riconosce come un’azione involontaria: eviterebbe che l’azione venga percepita come una punizione per qualcosa che ha o non ha fatto. Da istruttore cinofilo, penso che questo sia importantissimo, perché sappiamo bene quanto poco costruttive siano le punizioni nel percorso di educazione e addestramento».
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