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Il fascino dell’ignoto: controversie sulla coscienza

Giorgio Vallortigara, Professore di Neuroscienze all’Università di Trento, ci accompagna alla scoperta della coscienza.

Sento, quindi sono. Percepisco sotto i miei polpastrelli il tocco familiare dei tasti sottili del computer che si abbassano e si rialzano rapidamente mentre scrivo. Se presto attenzione ai rumori intorno a me, mi lascio infastidire dal rombo delle macchine che proviene dalla strada. L’odore di lievito mi informa della presenza del pane appena sfornato nella stanza accanto, e della mia capacità di essere pervasa dal suo profumo.

“La coscienza consiste proprio in questo, nel sentire, nel percepire il mondo che ci circonda, farne esperienza e nel provare qualcosa”, spiega in un’intervista a OggiScienza Giorgio Vallortigara, Professore di Neuroscienze all’Università di Trento. “Certo, la parola coscienza assume nel linguaggio comune una varietà di significati diversi – parliamo di ‘essere coscienti’, di ‘coscienza morale’, per esempio – ma il problema fondamentale di cui si occupano le neuroscienze riguarda la qualità dell’esperienza sensibile”.

Un enigma rimasto irrisolto, e per questo particolarmente appassionante.

Cos’è esattamente la coscienza? Quali aree del cervello e quali circuiti neurali permettono di essere coscienti? Come si è evoluta la coscienza e a cosa serve? E soprattutto, com’è possibile che la materia dia origine alla coscienza? Quest’ultimo quesito rappresenta l’hard problem of consciousness, come lo ha definito il filosofo David Chalmers nel 1995, che consiste non solo nel “comprendere i correlati neuronali della coscienza”, precisa Vallortigara, “ma anche nello scoprire come si produce questo fenomeno che noi definiamo ‘sentire’, ‘provare’ qualcosa”.

Molti filosofi sostengono che non sarà mai possibile trovare una risposta, secondo alcuni ricercatori il problema non è risolvibile perché non può essere studiato scientificamente. Ci sono però pochi coraggiosi che tentano di svelare i segreti della mente e formulano ipotesi e tesi, a volte, naturalmente, in contrasto tra loro.

La coscienza della talpa

Una tesi è che la coscienza possa svilupparsi solo in cervelli complessi, con un gran numero di connessioni tra le diverse strutture cerebrali. In natura esistono però esseri viventi, animali, con strutture cerebrali molto diverse da quelle umane, molto più semplici. Possiamo dire che un’ape, il cui ganglio encefalico conta meno di un milione di neuroni, non sia cosciente? E un verme?

Secondo Vallortigara bisogna operare una distinzione tra coscienza e intelligenza. L’intelligenza, associata a capacità cognitive anche complesse, non è collegata al “sentire”.

“Per definire la presenza di coscienza in un essere vivente è più importante, secondo me, osservare l’esperienza ‘minimale’ di cui quest’essere è capace, il dolore per esempio”. Un grillo, un’ape o un verme sentono dolore, quindi possiamo dire che sono coscienti.

D’altre parte però, precisa il Professore, “è difficile credere che sentano come sente un essere umano adulto, perché questi organismi sono dotati di un sistema nervoso molto diverso. Non dico che un’esperienza (il sentire dell’uomo ad esempio) sia superiore all’altra, sostengo semplicemente che siano differenti”.

Se è vero che non sappiamo ancora in che modo i processi chimico-fisici producano l’esperienza, la consapevolezza, Vallortigara propone, nel suo recente libro Pensieri della mosca con la testa storta, una teoria sul quando e perché questi processi siano apparsi nel corso dell’evoluzione. “Il nodo cruciale sta nell’individuare il momento nella storia naturale in cui è avvenuta la distinzione tra sensazione e percezione. Mi spiego. Quando sento l’odore di una rosa succedono due cose: la avverto come qualcosa che succede a me, e suscita qualcosa in me, perché magari considero quell’odore piacevole, ma è anche il segno che c’è qualcosa fuori di me: l’odore mi indica la presenza della rosa. Questa distinzione, credo, ha avuto origine con la comparsa del movimento attivo, milioni di anni fa. Nel momento in cui gli organismi hanno iniziato a muoversi è diventato necessario per loro riuscire a distinguere ciò che gli succedeva in risposta alla propria azione e ciò che succedeva al di fuori di sé”.

Un esempio: “Se prendo una talpa, e la tocco, l’animale avrà una reazione difensiva. Quando la talpa però si muove sotto terra e viene stimolata dal terriccio, proprio come può essere stimolata dal mio tocco, non si difende, altrimenti non potrebbe muoversi liberamente”. Allo stesso modo se qualcuno ci fa il solletico ridiamo, mentre se tentiamo di farci il solletico da soli non abbiamo nessuna reazione. Ciò è dovuto a un meccanismo fisiologico, chiamato copia efferente. “Quando il cervello invia un segnale motorio al muscolo, viene inviata una ‘copia’ dello stesso comando anche al sistema sensoriale. In questo modo il cervello viene avvertito del fatto che sta per arrivare una sensazione prodotta dall’individuo, che non viene dall’esterno e che quindi può essere ignorata”.

La nascita del sé potrebbe avere a che fare proprio con questo: se ti muovi nel mondo hai bisogno di distinguere ciò che accade a te e ciò che accade fuori di te. È questa l’origine evolutiva della coscienza?

Tre ipotesi sulle origini cerebrali della coscienza

Scoprire le origini evolutive della coscienza potrebbe fornire indicazioni utili per risolvere l’hard problem: quali sono le regioni del cervello che ci permettono di essere coscienti?

Il dibattito su questo punto è, in questi anni, particolarmente vivace perché nel 2019 è stato dato il via a un progetto internazionale, COGITATE, che ha proprio lo scopo di confrontare le diverse teorie sulle origini cerebrali della coscienza allo scopo di scoprire quale sia corretta.

Lo studio coinvolge un team di oltre 500 scienziati e filosofi di Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Cina ed è il primo nella storia che coinvolge Paesi di tutto il mondo e mette in campo l’uso dei Big Data per studiare la coscienza.

“Il progetto viene svolto in 11 siti diversi in tutto il mondo, sei di questi si occupano della raccolta di dati, usando tre tecniche di imaging (la magnetoencefalografia, la risonanza magnetica funzionale e degli elettrodi presenti per ragioni terapeutiche nel cervello delle persone affette da epilessia). Abbiamo scelto di svolgere gli stessi esperimenti in più laboratori per assicurarci che i risultati ottenuti siano replicabili”, ci racconta uno dei ricercatori che dirige il progetto, Lucia Melloni, del Max Planck Institute for Empirical Aesthetics, a Francoforte.

Attraverso numerosi esperimenti standardizzati, gli scienziati valutano la validità di due importanti teorie. Secondo la prima, sostenuta da alcuni scienziati, la parte prefrontale della corteccia cerebrale – quell’area del cervello deputata all’organizzazione e alla pianificazione dei comportamenti complessi e delle cognizioni di livello superiore – è la sede cerebrale della coscienza. Altri studiosi, come lo psichiatra e neuroscienziato italiano Giulio Tononi e lo scienziato Christof Koch ritengono invece che i correlati neurali anatomici della coscienza siano principalmente localizzati in una zona corticale posteriore che include le zone del cervello deputate al riconoscimento degli stimoli sensoriali.

Gli esperimenti non solo testeranno le due ipotesi, ma serviranno anche a valutare come queste aree cerebrali funzionano nel processo.

Con COGITATE è stato dato il via a una collaborazione/competizione che, confermando e confutando ciò che è stato scoperto fin ora e le ipotesi formulate, potrebbe avvicinarci a comprendere il legame tra mente e materia. Non è escluso che entrambi gli schieramenti stiano sbagliando, e che in nessuna delle regioni della corteccia cerebrale (la parte del cervello maggiormente sviluppata nell’uomo), risieda la coscienza.

“Esistono delle evidenze che suggeriscono l’importanza fondamentale, forse maggiore di quella attribuita alla corteccia, di strutture sotto-corticali molto profonde”, racconta Vallortigara. Il neuroscienziato Bjorn Merker ha studiato i bambini affetti da idranencefalia, una condizione rara e molto grave in cui gli emisferi cerebrali sono quasi completamente assenti, mentre le strutture sotto corticali, come il cervelletto, il tronco encefalico e i nuclei della base sono intatti. “Nonostante l’assenza di corteccia, questi bambini reagiscono agli stimoli, piangono, ridono, si comportano in maniera differente in base alla persona che hanno di fronte. Non si può dire che non siano coscienti, nonostante gli importanti deficit cognitivi che la malattia comporta. Questi casi mi fanno pensare che le regioni del tronco encefalico e del mesencefalo siano necessarie per avere una coscienza, mentre la corteccia provvede a fornire i contenuti specifici delle esperienze consapevoli, modulate anche dalle esperienze personali e dalla storia dell’individuo”.

Dati liberi per una scienza democratica

Quale delle tre teorie qui presentate si rivelerà corretta? Una sola? In parte tutte e tre? Nessuna? “In realtà, al di là di queste teorie che possono essere valide oppure no, trovo che aspetto più intrigante ed emozionante del nostro progetto sia un altro”, confida Melloni. “Alla fine delle nostre analisi (che dovremmo concludere nel 2023), metteremo a disposizione di chiunque tutti i nostri dati, assolutamente unici. Ora immagina cosa potrà succedere nel momento in cui moltissime persone – ricercatori, studenti..- ovunque nel mondo, anche nei Paesi più poveri dove gli scienziati non dispongono di macchine per l’imaging, avranno accesso a tutte queste informazioni”.

Potranno essere testate le ipotesi esistenti, ma si potrà valutare anche la validità di idee completamente nuove. Molte barriere, economiche, temporali, anche semplicemente dovute alla mancanza di una quantità sufficiente dei dati, potranno essere abbattute.

“Io personalmente non sto valutando il ruolo delle regioni sotto corticali nella coscienza per questioni di tempo, naturalmente non posso fare esperimenti su ogni cosa, ma questo non esclude che l’ipotesi sub-corticale sia valida. Il bello di questo studio è che metterà a disposizione di tutti i dati su diverse regioni cerebrali. Credo che questo approccio sia un modo per rendere la scienza democratica e inclusiva”.


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Immagine: Pixabay

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