L’importante è vincere
Un libro che celebra lo sport, dall'antichità a oggi, ripercorrendo la storia dei Giochi olimpici.
Abbiamo ancora gli occhi pieni dei successi olimpici e paralimpici di Tokyo, eppure tra pochi mesi ci aspettano già i Giochi Olimpici Invernali. Se un greco antico potesse in qualche modo assistervi, però, rimarrebbe sorpreso per moltissimi aspetti. Innanzitutto per l’assenza di simboli e cerimonie religiose, che hanno sempre caratterizzato i Giochi di Olimpia. Non comprenderebbe il motivo della mancanza della gara di tromba e di quella degli araldi, necessarie per decretare chi avrebbe annunciato le gare e i vincitori, e si chiederebbe chi sia quel corridore che arriva con in mano una fiaccola. Senza contare lo stupore per una gara di corsa chiamata maratona, quando per gli ateniesi era la battaglia per eccellenza. Ma la cosa che più di tutte probabilmente non riuscirebbe a comprendere è il senso della frase “L’importante è partecipare”. “La vittoria per lui, come per ogni greco, era la dimostrazione della capacità di raccogliere le sfide e di affrontarle, superando gli altri, e in primo luogo se stessi. Alle Olimpiadi, come in qualunque gara, in qualunque momento della vita che imponeva una competizione, per i greci l’importante era vincere”.
I Giochi Olimpici, insomma, si sono decisamente evoluti, non solo rispetto agli antenati greci, ma anche rispetto alla versione reintrodotta da de Coubertin. In “L’importante è vincere. Da Olimpia a Tokyo” (Feltrinelli), Eva Cantarella ci racconta del mondo antico ed Ettore Miraglia si occupa dei Giochi moderni. Ne scopriamo la vera storia – anche femminile -, le profonde differenze con quanto avviene oggi, per arrivare fino alle questioni dei boicottaggi e del doping, oltre a scoprire interessanti parallelismi tra atleti del passato e moderni.
Delle Olimpiadi antiche ci sono state tramandate le date ufficiali di inizio e fine, eppure i Giochi non solo non nascono nel Peloponneso, ma ciò avviene ben prima del 776 a.C., anche se non è possibile individuare una data precisa. Sin dai tempi più antichi venivano organizzate gare atletiche sia in occasione dei riti di passaggio dei giovani alla pubertà, sia per il passaggio dalla vita alla morte. In questo caso, ne sono un esempio i solenni giochi a premi che, nell’Iliade, Achille indice per celebrare l’amato Patroclo, regolati da norme precise e rigorose, controllati da giudici, e a cui partecipano i più valorosi tra gli eroi greci. “Dietro a questa gara (la prima raccontata da una fonte greca) si possono scorgere regole e pratiche condivise, evidentemente già consolidate dal tempo. E poiché Omero, la testimonianza scritta più antica alla quale possiamo ricorrere, descrive il mondo dei greci in età anteriore all’VIII secolo a.C. (quando nacque la città-stato, la polis, vale a dire la prima comunità politica), l’agonismo ha alle spalle una lunga storia precittadina.”
Origini antiche, dunque, e un’attrattiva, in termini di pubblico, che né il caldo, né gli insetti, né le difficoltà dell’approvvigionamento idrico o le condizioni igieniche – spesso disastrose – riuscivano a scoraggiare. Eppure, le donne non solo non potevano prendere parte alle gare, ma non potevano nemmeno assistervi. Ferenice, dopo aver allenato il figlio pugile Pisiro, assistette all’incontro travestita da uomo, ma nel festeggiarne la vittoria venne scoperta: da allora si stabilì che gli allenatori dovevano presenziare alle gare nudi.
Il passaggio dei premi dal solo ulivo, puramente onorifico, a quelli in senato o altri beni materiali, segnò la nascita del professionismo, consentendo quindi anche agli appartenenti alle classi meno facoltose di dedicarsi unicamente allo sport, non dovendosi preoccupare di guadagnarsi da vivere. Arrivò il momento in cui furono addirittura le poleis stesse a dare denaro agli atleti più promettenti, dal momento che la vittoria portava lustro anche alla città del vincitore. Il professionismo inteso come specializzazione atletica, invece, ha origini ancora più antiche, e avulse dal denaro.
Interessante ricordare che fu una grande sconfitta a far rinascere i Giochi: quella di Sedan, subita dai francesi a opera dei prussiani, nel 1870. Pierre de Coubertin pensava che quella débâcle fosse legata alla pigrizia dei giovani francesi, alla quale forse lo sport avrebbe potuto porre rimedio. La scoperta del sito di Olimpia nel 1888 da parte dei tedeschi fu per lui un ulteriore sprone, affinché proprio i francesi fossero i padri dei nuovi Giochi olimpici, nel nome dello sport come veicolo di pace nel mondo.
Rimane un principio degno di ammirazione quello della “tregua sacra”, proclamata anticamente tra le diverse città che partecipavano ai Giochi. “Le Olimpiadi erano un’occasione che ricordava ai greci l’importanza dello stare insieme, del sentirsi uniti in nome di un patrimonio culturale comune, mettendo da parte – quantomeno temporaneamente – incomprensioni e ostilità. Così come oggi fa – o dovrebbe fare – per qualche giorno chi partecipa come atleta o come spettatore ai Giochi olimpici. Come allora – e oggi come non mai – le Olimpiadi offrono un’occasione per comprendere che la consapevolezza dell’appartenenza a un sistema comune di valori è la sola arma in grado di affrontare e combattere forze disgregatrici che oggi giungono a mettere in discussione la possibilità stessa di una convivenza civile sul pianeta.” Lo sport come competizione, sì, ma comunque in grado di creare unione tra i popoli.
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