Dopo sei mesi di silenzio, Jeffrey Beall attribuisce i danni dell'editoria predona all'omertà della "comunità scientifica", ma anche all'open access di per sé.
Alcuni matematici sperimentano un business model in controtendenza: l'autogestione delle proprie riviste. Approfittano del successo di archivi pubblici e di una rivolta contro l'editoria predona e l'abuso degli indici bibliometrici.
Nel ringraziare i lettori per le segnalazioni di articoli deliberatamente para-scientifici (PS) pubblicati con frequenza crescente da editori spenna-polli (SP), la Redazione di Oggi Scienza li prega di rispettare le fasce protette almeno durante la tregua natalizia.
Dopo aver cercato di contrastare l'avanzata degli editori predoni insieme a quella dell'open access, le multinazionali dell'editoria scientifica sono passate alla controffensiva e pubblicano crackpottery in open access e non.
Arrendetevi. Se vi piace leggere e non avete ancora un dispositivo per la lettura degli ebook, molto presto probabilmente dovrete cedere e rassegnarvi a comprarlo. Arricciare il naso di fronte a questa tecnologia, magari portando argomenti come il piacere del "profumo della carta" ormai è ai limiti del luddismo.
POLITICA - Direttamente e indirettamente, tutti noi paghiamo le pubblicazioni scientifiche. L'appello per boicottare un editore che pratica prezzi esagerati ha già raccolto più di tremila adesioni. In Italia pochissime.
Le riviste scientifiche sono oltre 100 mila, per lo più di nicchia e pubblicate da università, società e accademie scientifiche. Quelle che "contano" sono le 14 mila censite dall'Institute for Scientific Information e circa metà appartengono a tre editori: Elsevier, Springer e Wiley che si dividono il 42% del mercato e hanno margini di profitto del 36%.
Scrivere articoli e controllare quelli altrui prima che escano fa parte del lavoro per il quale un ricercatore è retribuito, non è a carico degli editori. Ma, dicono questi, sosteniamo costi enormi per la diffusione del prodotto, per la sua infrastruttura digitale. Se i costi sono davvero enormi, da dove salta fuori quel margine di profitto? E a cosa servono infrastrutture private quando esistono già quelle pubbliche, di società scientifiche e di enti di ricerca, finanziate dalla collettività?