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Perché siamo scettici sul cambiamento climatico

Aumenta il numero degli scettici sul riscaldamento globale. Poca, troppa, o errata informazione? O semplicemente limiti cognitivi?

NOTIZIE – Il 2007 è stato l’anno del clima: prima la pubblicazione del rapporto sul riscaldamento globale dell’IPCC (l’Intergovernmental Panel on Climate Change) e poi il Nobel per la pace (proprio per l’impegno sulla salute del pianeta) dato allo stesso IPCC e a Al Gore, ex vice-presidente degli Stati Uniti per il l film “una scomoda verità” dove si denunciavano i gravi danni ambientali che il riscaldamento sta provocando. Che cosa rimane di tutto questo entusiasmo a soli due anni di distanza? Sempre meno, almeno a giudicare dai dati raccolti sull’opinine pubblica negli Stati Uniti ma anche nel nostro paese.
Per esempio i risultati di un’indagine dell’Osservatorio Scienza e Società di Observa dimostrano che dal 2007 la percentuale di cittadini che crede effettivamente che stia avvenendo un riscaldamento a livello globale è scesa quasi del 20% (dal 90 al 71%). Dati simili si osservano negli Stati Uniti, dove si registra un calo del 20% rispetto al 2007 di cittadini che ritengono che l’inquinamento da anidride carbonica possa effettivamente causare il riscaldamento. Eppure in questi due anni la totalità degli studi sul tema ha sempre confermato le affermazioni dell’IPCC, a volte addirittura dimostrando che le previsioni erano persino troppo rosee. Nulla in questo lasso di tempo è intervenuto a sconfermare la verità scientifica sulla questione. Perché dunque la gente sta diventando così scettica?

Kari Marie Norgaard, sociologa del Whitman College, pur non negando nel fenomeno la responsabilità di una certa campagna di controinformazione, portata avanti per esempio negli Stati Uniti da compagnie come la Exxon Mobil e da certe agenzie pubblicitarie che in passato hanno aiutato le multinazionali del tabacco a negare la tossicità del fumo, è anche convinta che una buona parte di questo atteggiamento è legato a meccanismi squisitamente psicologici. La scienziata, autrice fra le varie cose di uno studio condotto addirittura per la Banca Mondiale, sulle difficoltà cognitive nel rispondere al cambiamento climatico, ritiene che un certo atteggiamento negazionista sia legato proprio ai nostri processi cognitivi. In primo luogo entrerebbero in gioco certi meccanismi difensivi che servono a mantenere il nostro mondo tranquillo e confortevole. Proprio perché la consapevolezza è aumentata e le informazioni disponibili sono sempre maggiori, finiamo semplicemente per rifiutarle e comportarci come se non esistessero. Un fattore che poi rende ancora più minaccioso il riscaldamento, provocando la nostra difesa ad oltranza, è anche il fatto di essere una minaccia non solo per le nostre vite ma anche per la nostra “permanenza” (intesa anche come sopravvivenza della nostra discendenza, per esempio). Non ultimo, come in passato è successo per gli scienziati implicati nella costruzione della bomba nucleare, il cambiamento climatico, responsabilità di tutti, risveglia il nostro senso di colpa.

In pratica il fatto che il problema è così grande, così minaccioso, e di così difficile soluzione che finiamo per far finta che non esista. La molla di questo comportamento sarebbe l’empatia, cioè la capacità di immedesimarsi profondamente nei sentimenti altrui. “Qualche volta le persone molto empatiche sono proprio quelle che hanno meno probabilità di aiutare l’altro in certe situazioni, perché il carico emotivo diventa insopportabile,” ha spiegato  Norgaard.

Un altro fattore da non sottovalutare comunque ha un aspetto più “operativo” e dipende dal senso di inadeguatezza nei confronti di una soluzione. Il problema climatico è complesso, ma non esiste un’unica e semplice soluzione operativa. In generale se si vuole fare in modo che una comunità risponda attivamente in qualche situazione bisogna dire chiaramente cose bisogna fare e farlo sembrare facilmente realizzabile. Se non c’è un’azione possibile la gente sembra non prendere sul serio un problema.

“Probabilmente è in gioco anche un fattore di scala, sia spaziale che temporale,” ha commentato per OggiScienza Giorgio Vallortigara, scienziato cognitivo del Centro Interdipartimentale Mente/Cervello di Trento, autore insieme a Telmo Pievani e Giorgio Girotto, del Libro “Nati per credere” (Codice Edizioni, 2009) dove i tre scienziati spiegano da un punto di vista evolutivo sia perché siamo così inclini alla superstizione che perché facciamo così fatica a credere a quanto scoperto attraverso i metodi della scienza. “La selezione naturale ci ha equipaggiati per fronteggiare e concepire gli eventi su una scala temporale (quella delle nostre vite) e spaziale (quella della nostra grandezza) che ci fa vivere benissimo nel nostro ambiente locale, ma che ci rende assolutamente indigeribili molti fatti di cui si alimenta la scienza. Ad esempio, per quel che riguarda l’agire della selezione naturale, i tempi geologici dell’evoluzione.”
Nel caso del riscaldamento, continua lo scienziato, il fattore di scala riguarda sia le dimensioni delle emissioni legate alle attività antropiche (è vero che siamo tanti e facciamo tante cose, ma questo fatto più che sperimentarlo sulla pelle lo leggiamo sui libri e sui giornali, senza riuscire a concepirlo davvero) che l’esito delle nostre azioni su tempi che sono ben più lunghi delle nostre vite individuali.
Una maggiore, o migliore, informazione su questi temi potrebbe essere d’aiuto? Purtroppo la soluzione non sembra essere così banale. Paradossalmente, spiega Vallortigara, campagne di informazione e comunicazione serrata, anziché portare acqua al mulino della causa climatica, potrebbero avere un effetto opposto. “È successo lo stesso quest’anno con il darwinismo: il gran lavoro di divulgazione condotto per l’anno dedicato a Darwin ha avuto l’effetto di aumentare il numero dei credenti nel creazionismo.” Sta forse succedendo lo stesso con il cambiamento climatico?

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Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.