Le tecniche di imaging cerebrale da un po’ sono entrate anche in tribunale, come prova. OggiScienza intervista su questo tema Hank Greely professore all’università di Stanford ed esperto di neuroetica
LA VOCE DEL MASTER – Nell’ottobre 2009 le tecniche di imaging funzionale cerebrale (fMRI, dalla sigla inglese) hanno varcato per la prima volta la soglia di un’aula di tribunale italiana: grazie alle perizie fornite dai nuovi strumenti alla Corte d’Assise d’Appello di Trieste, la pena di un uomo colpevole di omicidio è stata ridotta di dieci anni. La sentenza, che ha suscitato in Italia polemiche roventi nel campo della neuroetica, non è stata però ancora argomento di discussione profonda sui mezzi di comunicazione di massa. Negli Stati Uniti, dove l’imaging funzionale è stato utilizzato per la prima volta lo scorso novembre, nell’ambito di un processo conclusosi con una condanna a morte, si è messa in scena, il 20 febbraio, una simulazione di processo, alla quale sono intervenuti nomi di spicco nel campo della neuroetica. Oggiscienza ha approfittato dell’occasione per intervistare Hank Greely, che a quella conferenza ha preso parte. Greely è professore di legge e di genetica (ad honorem) all’università di Stanford, dove è inoltre membro del comitato direttivo del Centro di etica biomedica e direttore del programma di neuroetica.
OS: Professor Greely, le tecniche di imaging funzionale cerebrale sono entrate in tribunale: nel 2009, negli Stati Uniti, delle prove acquisite con la fMRI sono state usate nell’assegnazione della pena capitale a un uomo accusato di stupro e uccisione di una bambina di dieci anni. Cosa ne pensa?
HG: Le prove di imaging sono usate ormai da trent’anni nei casi criminali. In molti di questi, non è chiaro se siano state o meno efficaci. Nel caso a cui lei si riferisce, l’imputato è stato condannato a morte dalla giuria: nei casi di pena capitale si permette all’imputato di addurre a sua discolpa qualunque prova che la giuria possa usare per mitigare la pena. In quel contesto, l’introduzione di una prova simile può quindi essere stata opportuna, indipendentemente da considerazioni sulla sua affidabilità scientifica nell’ambito di quel processo in particolare.
OS: A marzo del 2009, fu richiesta la perizia della fMRI nell’ambito di un processo di stupro giovanile in California; la richiesta fu poi ritirata, grazie soprattutto al suo intervento. A cosa attribuisce quel successo?
HG: Non direi che sia stato grazie al mio intervento. Fu principalmente grazie al fatto che gli avvocati dissero chiaramente fin dall’inizio che si sarebbero opposti a questo tipo di prove. Io e i miei colleghi del Centro di legge e bioscienze abbiamo fornito delle informazioni su questa tecnologia e dato dei consigli ai periti, quindi il merito va a loro. Credo che abbia funzionato perché la parte che voleva ricorrere all’imaging funzionale deve aver concluso che le sue chance di farlo ammettere al processo non erano alte abbastanza da giustificare il tempo e le spese.
OS: Lei ha recentemente partecipato alla simulazione di un processo, organizzata dall’American Association for the Advancement of Science (AAAS) in California, dal titolo “Le prove delle neuroscienze nell’aula di tribunale”: il pubblico è stato ammesso alla simulazione?
HG: Il processo era aperto a chiunque si fosse iscritto al meeting annuale dell’AAAS, e l’iscrizione era aperta a tutti, che fossero o meno membri dell’AAAS, ma non era gratuita, salvo forse per i giornalisti.
OS: Quale influenza potrebbe avere sulla giuria l’uso delle tecniche di imaging funzionale?
HG: Be’, se la tecnologia è di buon livello e il suo uso è rilevante, l’imaging dovrebbe avere una forte influenza sulle giurie. Molti di noi temono che i giurati diano troppo peso all’imaging. Durante la simulazione del processo, mi sono stupito di quanti nel pubblico siano rimasti senza fiato alla vista della grande macchia scura che rappresentava una lesione nel lobo frontale dell’imputato nella lastra della fMRI. Perfino a me si è strozzato il fiato in gola. Ci sono lavori che mostrano quanto enormemente la gente sia influenzata dalle neuroscienze e dalle neuroimmagini, anche se sono necessari altri studi in quest’ambito: non è ancora chiaro quanto universale e quanto intenso sia questo effetto.
OS: Spesso si fa confusione tra l’uso dell’imaging come “macchina della verità” e quello come sonda per eventuali lesioni cerebrali di un imputato. Lei è contrario all’uso dell’imaging soltanto per quanto riguarda il primo uso, o in generale?
HG: Io non mi oppongo di certo all’uso dell’imaging nei tribunali: per alcuni scopi, come mostrare la misura delle lesioni del cervello alle parti in causa, credo sia chiaramente appropriato. Ritengo però che occorra valutare ogni tipo di uso attentamente per determinare se la scienza di una particolare applicazione sia affidabile e, cosa ancora più importante, se fornisca prove rilevanti al caso. Sulla base di quanto so al momento, non credo che le macchine della verità basate sulla fMRI o sugli elettroencefalogrammi raggiungano gli standard di affidabilità richiesti dagli usi del “mondo reale”. Potrei però cambiare opinione se venissero fuori nuovi dati in difesa di una tale affidabilità.
OS: Anche se non ci sono relazioni deterministiche tra la genetica e il comportamento, se le caratteristiche strutturali e funzionali del cervello della gente possono renderla “più incline” ad atti criminali, ci si potrebbe chiedere perché non fare esami con l’imaging a tutta la popolazione prima ancora che i delitti vengano commessi.
HG: Potremmo farlo, ma prima di provarci bisogna pensare a lungo e con attenzione a cosa faremmo di queste informazioni. Se i dati dicessero che qualcuno ha il 50% di probabilità di commettere un crimine violento, dovremmo arrestarlo? E se avesse l’80% di probabilità? o il 30%? O magari “curarlo”, avvertire i vicini, metterlo sotto sorveglianza? E se il crimine fosse non violento? E quanto dobbiamo essere sicuri che la predizione sia fondata? Introdurre prematuramente una nuova tecnologia può essere molto pericoloso; introdurla senza aver pensato a lungo alle sue implicazioni, anche.
OS: Quali sono i costi di un apparecchio di imaging?
HG: Il costo varia da un modello all’altro. Non ho controllato i prezzi, ma credo che anche una macchina di potenza limitata costi oltre il milione di dollari (più di settecentomila euro, NdR), più una somma non trascurabile per il funzionamento e la manutenzione. Sono apparecchiature complicate… Credo che il costo totale di un’ora di imaging cerebrale sia attorno ai mille dollari.
OS: L’fMRI come macchina della verità dà informazioni su caratteristiche medie di campioni di individui: come si fa a essere sicuri che le risposte degli individui presi singolarmente non siano differenti?
HG: Non possiamo esserne certi. Certo, in giurisprudenza raramente si è “certi” di qualcosa; ma abbiamo bisogno di dati statisticamente significativi, di molte persone, e con caratteristiche differenti, in modo da poter dire “questo dato è preciso al 95%, quest’altro al 65%”. E, in effetti, avremmo bisogno di un dettaglio maggiore, e di poter distinguere vari livelli di “precisione”, come la specificità (cioè, in che misura si riescono a evitare i falsi positivi) e la sensibilità (in che misura si evitano i falsi negativi).
OS: L’affidabilità di un fMRI usato come macchina della verità può raggiungere il 90%: è abbastanza per permetterne l’uso nei processi?
HG: Non sono d’accordo col suo dato. Solo le aziende produttrici e un numero molto piccolo di ricercatori sostengono di aver raggiunto un’affidabilità così alta, ma questi dati non sono stati riprodotti indipendentemente da altri ricercatori, non sono stati trovati in circostanze realistiche (in contrasto con il contesto del tutto artificiale di un esperimento di laboratorio in cui i partecipanti sanno che stanno prendendo parte a un esperimento e seguono l’ordine di “mentire”), né infine sono stati testati su soggetti a cui sia stato detto di prendere contromisure plausibili agli ordini dati. Non possiamo accettare quel 90% come vero, almeno non ancora. Se fossimo convinti del 90% di affidabilità della fMRI, personalmente credo che si potrebbe ammetterla come prova. Ovviamente, preferirei una cifra più alta, dal momento che “preciso al 90%” significa “impreciso al 10%”. Con delle prove così stringenti (è “la scienza” a dire che la persona ha mentito), quel 10% d’errore potrebbe essere abbastanza schiacciante.