LA VOCE DEL MASTER – C’è un luogo in Giappone più inaccessibile del palazzo imperiale di Tokyo. È Taiji, un villaggio di pescatori incastonato in una placida baia sull’Oceano Pacifico e protetto alle spalle da alte montagne, nel distretto di Higashimuro.
Ci sono voluti tre anni di appostamenti notturni, di attese, di immersioni clandestine, di resistenza alle minacce (e qualche percossa) per violare con l’occhio delle telecamere questo luogo e svelare il suo segreto.
Il risultato è il documentario The Cove (La piccola baia) del regista e fotografo americano Louie Psihoyos che testimonia la mattanza dei delfini; gli animali vengono spinti nella baia dalle imbarcazioni, uccisi dai pescatori nell’acqua e infine, agonizzanti, trascinati a riva. In questo modo in Giappone vengono uccisi migliaia di delfini ogni anno.
The Cove ha vinto qualsiasi premio cinematografico internazionale potesse vincere, compreso il prestigioso Audience Award del Sundance Film festival. In una notte speciale di marzo è arrivata la consacrazione: l’Oscar 2010 come miglior documentario.
Ma il segreto della baia nasconde una scomoda verità. I delfini migliori non vengono uccisi ma catturati e trasportati in tutto il mondo per essere venduti ai delfinari, pronti a pagare decine di migliaia di dollari per ogni esemplare. Nei parchi, i delfini e le orche vengono fatti esibire tutti i giorni come tristi clown costretti a vivere, senza il loro gruppo familiare, in una piscina.
Secondo Nadia Masutti, responsabile Lav, più del 60% dei delfini detenuti nei parchi proviene da catture in mare. Molti delfini finiscono per lasciarsi morire in pochi anni. Le pinne flosce delle orche in cattività sono il sintomo più evidente del loro malessere. Flipper, il delfino protagonista della popolare serie tv, era stato catturato proprio in questo modo. Gli altri animali vengono mandati al macello; poco sono servite in questi anni le campagne di sensibilizzazione per informare i consumatori che la carne dei cetacei contiene molti inquinanti pericolosi per la salute dell’uomo. La caccia continua perché questo è il business.
The Cove in Italia non è ancora arrivato (nonostante sia stato presentato al Festival del cinema di Roma) e non sappiamo se ci sarà qualcuno pronto a distribuirlo nelle sale italiane; l’augurio è che l’Oscar vinca lo scetticismo dei distributori italiani. Certo il film fa già parlare di sé. Licia Colò, nel suo blog, gli ha dedicato un articolo intitolato “Quell’Oscar alla libertà”.
Ad Oggiscienza i documentaristi Folco Quilici ed Eugenio Manghi, hanno dichiarato di non averlo ancora visto. Marco Affronte, responsabile scientifico di Fondazione Cetacea, dichiara che “vedrò il film il prima possibile e ben vengano nuovi mezzi di comunicazione nella battaglia per la tutela del mare”. “Il mio dubbio – aggiunge Affronte – è legato al senso di frustrazione che coglie chi vede questi film, drammatico… terribile …ma io cosa posso fare per impedirlo?”
La domanda, che rimane senza risposta, è se il cinema, la spettacolarizzazione della tragedia possano cambiare le opinioni e influire sulle decisioni di chi governa l’ambiente. L’augurio è che The Cove segua quella strada (a tratti in salita) tracciata da Una scomoda verità.