Dopo essersi “scottate” con le estrazioni dalle profondità oceaniche, le compagnie petrolifere potrebbero puntare all’ultima, estrema, fonte di petrolio: le sabbie bituminose. Ma i rischi ambientali sono ancora più alti.
[Audio http://oggiscienza.it/wp-content/uploads/2010/05/lepore.mp3] Ascolta l’intervista integrale di OggiScienza ad Andrea Lepore, di Greenpeace
CRONACA – A tre settimane dal disastro della piattaforma Deepwater Horizon, continua il rilascio di greggio nel Golfo del Messico, al ritmo di almeno 5000 barili al giorno. E mentre si cercano soluzioni per chiudere una volta per tutte i “rubinetti” sottomarini del petrolio, c’è chi comincia a temere che quanto accaduto possa aprire la strada a un’altra attività potenzialmente molto pericolosa: lo sfruttamento delle sabbie bituminose, riserva non convenzionale di greggio la cui sola estrazione rappresenta una vera e propria catastrofe ambientale.
E qualche segnale in questo senso c’è già , come testimonia anche il rapporto Tar sands in your tank, pubblicato pochi giorni fa da Greenpeace, secondo il quale la circolazione di prodotti petroliferi derivati da sabbie bituminose non si limiterebbe al Canada (principale produttore) e agli Usa (principale importatore del petrolio canadese), ma interesserebbe anche l’Europa.
“La tendenza ormai è chiaro: siamo alla disperata ricerca di petrolio”, afferma Ugo Bardi, docente di chimica all’Università di Firenze e presidente di Aspo-Italia, sezione italiana dell’Associazione per lo studio del picco del petrolio. “Per ottenere l’oro nero, siamo disposti ad andarlo a prendere ovunque, per esempio nelle estreme profondità oceaniche, oppure a spremerlo dalle sabbie bituminose: un’operazione che giudico una vera e propria follia, perché ha costi economici e ambientali elevatissimi”.
Ma di che cosa stiamo parlando esattamente? Le sabbie bituminose non sono altro che una miscela di argilla, acqua, sabbia, fango e bitume, dalla quale si può ottenere – come dice il nome – bitume e, attraverso un particolare processo di estrazione, anche petrolio grezzo. Le riserve più consistenti si trovano in Canada, nel bacino del fiume Athabasca (nella provincia dell’Alberta), ma ce ne sono anche in altre località: per esempio lungo l’Orinoco (in Venezuela) e in Congo. Queste ultime sono attualmente in fase di esplorazione da parte della nostra Eni.
Potrebbe sembrare una buona notizia il fatto di disporre ancora di riserve da cui continuare a spremere petrolio, non fosse per l’impatto ambientale dell’estrazione. Pesantissimo e duplice, come spiega Andrea Lepore, responsabile della campagna clima di Greenpeace Italia. “Intanto c’è un impatto relativo alla questione climatica: estrarre un barile di petrolio con metodi convenzionali “costa” l’emissione di 29 kg di CO2, estrarlo da sabbie bituminose ne “costa” invece 125 kg, quattro volte tanto”. E ovviamente ci sono le conseguenze dirette sul territorio. “Prendiamo il caso del Canada: poiché le sabbie si trovano esattamente sotto le foreste boreali, andarle a prendere significa distruggere le foreste. Finora è stata rasa al suolo una superficie pari a quelle di Milano, Palermo e Firenze messe insieme”.
E ancora: tutti i detriti e i residui dell’estrazione vengono riversati in enormi stagni le cui acque tossiche possono intaccare le falde e riversarsi nei fiumi. Secondo uno studio pubblicato pochi mesi fa su Pnas dal gruppo di ricerca di David Schindler, dell’Università canadese di Edmonton, per esempio, la concentrazione di composti policiclici aromatici – contaminanti organici con effetti carcinogeni e teratogeni – negli affluenti del fiume Athabasca aumenta mano a mano che ci si avvicina agli impianti di estrazione delle sabbie. E se “semplici” dati di concentrazione, pur decisamente eloquenti, potrebbero lasciare indifferente qualche lettore, decisamente d’impatto sono le immagini girate in Alberta dal regista indipendente canadese Peter Mettler. Nel suo documentario Petropolis, attualmente in tour mondiale, Mettler ha ripreso da un elicottero le regioni canadesi di estrazione delle sabbie bituminose, mostrando scenari apocalittici di devastazione.
E’ ancora presto per dire se il disastro della Deepwater Horizon sposterà davvero l’interesse delle compagnie petrolifere dagli impianti offshore a profondità estrema alle sabbie bituminose. Se la prospettiva dovesse davvero essere questa, per Lepore potrebbe essere il caso di provvedersi di strumenti che permettano ai consumatori di scegliere quali fonti di combustibili fossili utilizzare, evitando quelle più pericolose come appunto le sabbie.
“La soluzione più sensata a questo punto, però, sarebbe quella di rivedere la nostra dipendenza pressoché assoluta dal petrolio ed esplorare altre strade”, affermano all’unisono Bardi e Lepore. A partire dalle fonti rinnovabili e da maggiori investimenti sull’efficienza energetica.