Domani, 20 maggio, è la Giornata internazionale della ricerca clinica. In occasione di un convegno all’Istituto Mario Negri di Milano, OggiScienza ne ha parlato con Alessandro Liberati, direttore del Centro Cochrane Italia, gruppo indipendente di valutazione degli studi clinici.
SALUTE – Era il 20 maggio 1747 quando il medico scozzese James Lind, in servizio su un vascello della marina britannica, avviò il primo studio clinico della storia, coinvolgendo una dozzina di marinai ammalati di scorbuto. Lind li suddivise in 6 coppie, ciascuna delle quali ricevette, per un certo periodo di tempo, un differente supplemento alimentare quotidiano: chi del sidro, chi dell’aceto, chi (poveretti!) dell’acqua di mare e chi un limone e due arance. Bastarono pochi giorni per capire che proprio gli agrumi avevano sui malati un effetto decisamente positivo – anche se passarono altri 40 anni prima che la marina britannica si decidesse a fornire agli equipaggi succo di limone per prevenire lo scorbuto. Quello che conta, comunque, è che si era messa a punto una nuova metodologia per valutare l’efficacia di un trattamento: la metolodogia dello studio clinico .
Metodologia che si celebra domani, 20 maggio, con la quinta edizione della Giornata internazionale della ricerca clinica. In programma varie iniziative in tutto il mondo precedute, oggi, da un convegno organizzato a Milano dall’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, durante il quale è stato presentato anche il volume di prossima pubblicazione Quale salute per chi: la dimensione sociale della salute (Franco Angeli). OggiScienza ha colto l’occasione per rivolgere alcune domande su caratteristiche e limiti della ricerca clinica a uno dei relatori, Alessandro Liberati, direttore del centro Cochrane italiano e docente di statistica medica all’Università di Modena e Reggio Emilia.
Alessandro Liberati, innanzitutto che cosa si intende esattamente per ricerca clinica?
Non c’è una definizione univoca e standardizzata; direi che è quella ricerca che si occupa di verificare sui pazienti l’efficacia e la sicurezza di una qualunque tecnologia medica, sia questa un farmaco, una terapia chirurgica, una radioterapia, o una terapia di altro tipo (compresi interventi di prevenzione o per la salute mentale).
Perché istituire una Giornata della ricerca clinica?
Perché questo tipo di ricerca è un po’ una cenerentola, dal punto di vista dei finanziamenti. Anche nei paesi che più investono in ricerca (e quindi anche fuori dall’Italia), si tende comunque a investire di più in ricerca di base. Certo c’è un’eccezione, che è quella dei farmaci, che hanno dietro un’industria, specifica e molto sviluppata, che ha un proprio interesse scientifico e soprattutto commerciale a sostenere la ricerca. Nessuna eccezione, invece, per quanto riguarda altri tipi di interventi, per esempio quelli chirurgici, oppure sulla salute mentale, o ancor più sulla prevenzione, che ricevono pochissimi finanziamenti.
Eppure, chi lavora nella ricerca di base si lamenta dello stesso problema, cioè di ricevere pochi soldi. Come stanno le cose?
Qui mettiamo il dito nella piaga: tutti dicono che si finanzia sempre troppo poco la propria ricerca. Ovviamente, io non intendo chiedere che si finanzi la ricerca clinica togliendo fondi a quella di base, ci mancherebbe! Dico però che un sistema-paese avanzato dovrebbe sostenerle – e bene – entrambe. Hanno assolutamente ragione i ricercatori di base quando dicono che senza ricerca fondamentale non possono esserci avanzamenti clinici, ma non dimentichiamo il rischio che senza finanziamenti alla parte clinica risultati pur interessanti e innovativi della ricerca di base possono rimanere lettera morta.
Uno degli aspetti emersi con chiarezza nel corso del convegno di Milano, tuttavia, è che la ricerca clinica non è sempre “rose e fiori”. Ci sono anche dei limiti: ci può ricordare quali?
Intanto, problemi metodologici, di corretta definizione dei disegni della ricerca. Poi c’è il fatto che, essendo spesso lasciata all’idea del singolo l’individuazione delle priorità, si finisce con il fare tantissima ricerca su pochi argomenti e pochissima su altri. Altro limite rilevante è il fatto che non sempre quello che è importante per il ricercatore lo è anche per il paziente. Un esempio: un clinico che faccia ricerca sulla sclerosi multipla può disegnare uno studio clinico che valuti come endpoint (indicatore di successo della ricerca) di una certa terapia la riduzione delle placche visibili con risonanza magnetica. Il paziente, però, è interessato soprattutto alla sua qualità di vita, per esempio alla possibilità di camminare, e in questo senso la dimensione delle placche (che pure è una misura clinicamente rilevante) gli dice poco. In effetti, ci sono casi in cui i pazienti partecipano al disegno dello studio clinico proprio per evitare questo tipo di limiti. Altro discorso ancora è, infine, quello sui conflitti di interesse e sulla pubblicazione parziale di risultati, per cui i risultati negativi difficilmente vengono pubblicati.
Chi e come può lavorare perché i pazienti giochino un ruolo più centrale nella ricerca clinica?
Sicuramente le associazioni di pazienti possono avere un ruolo importante, ma hanno anche un tallone d’Achille, perché sono tutte molto parcellizzate: una si occupa solo dei pazienti con diabete, un’altra solo dei pazienti con ipertensione e così via. Secondo me ci vorrebbe anche un intervento del sistema pubblico che fornisca strumenti in grado di rendere i pazienti più consapevoli del proprio ruolo, pronti a partecipare a panel di discussione e di decisione sui temi della ricerca clinica, e in generale di governance della salute.