Molti paesi stanno investendo in ricerca per contrastare la crisi. Ma davvero più ricerca significa più crescita economica? Un articolo su Nature svela che la questione è molto più complessa di come appare.
ECONOMIA – L’Italia non fa testo, come ci ricorda il recente caso degli enti “inutili” da chiudere, poi graziati dal presidente della Repubblica Napolitano. Ma in altri paesi, come Germania, Svezia, Canada, Australia e Stati Uniti, la ricerca scientifica è diventata uno dei settori principali su cui puntare per cercare di far muovere l’economia e sopravvivere alla crisi. Già l’anno scorso, in un discorso alla National Academy of Sciences, il presidente Usa Barack Obama l’aveva detto chiaramente: “La scienza è più importante oggi per la nostra prosperità, la nostra salute e il nostro ambiente di quanto lo sia mai stata prima”. L’equazione, insomma, sembra di quelle davvero semplici: più investimenti in ricerca uguale più crescita economica, e quindi maggior benessere. Ma stanno davvero così le cose?
A sollevare qualche dubbio è un articolo pubblicato pochi giorni fa su Nature dal giornalista scientifico Colin Macilwain, secondo il quale le prove di questa correlazione diretta non sarebbero poi così solide. Il problema principale è il fatto che mancano studi ad hoc, di validità riconosciuta. Francis Collins, direttore dei National Institutes of Health americani (NIH), cita spesso un report di Families Usa, potente gruppo di pressione di consumatori americani attenti in particolare alle questioni sanitarie, secondo il quale ogni dollaro speso dagli NIH genera nel giro di un anno benefici economici aggiuntivi del valore di 2,21 dollari. Non tutti gli economisti, però, approvano i modelli economici che sono stati utilizzati per generare questo dato.
Macilwain, inoltre, ricorda che quando si tratta di quantificare i benefici economici della ricerca, le difficoltà si pongono a diversi livelli. Per esempio il fatto che i pochi dati disponibili riguardano in particolare il settore agricolo, e che non sappiamo quanto questi risultati siano trasferibili ad altri settori.
E ancora: si dice da anni che una grossa fetta della crescita economica dipenda dall’innovazione, cioè dalla capacità di una società di produrre nuove idee e tecnologie. Ma da che cosa dipende, a sua volta, l’innovazione? Molti sostengono che sia direttamente portata dalla ricerca di base, ma in gioco potrebbero esserci molti altri fattori, come la precisa domanda dei consumatori di disporre di nuovi modelli di telefoni cellulari (solo per fare un esempio). E comunque: se anche fosse vero che a guidare l’innovazione è la ricerca, questo non significherebbe automaticamente che più investimenti portano maggiore innovazione.
Altro problema chiave per gli economisti, riferisce il giornalista britannico, è riuscire a misurare i costi della ricerca. Non tanto quelli diretti, ma soprattutto quelli indiretti. Quanto costa il fatto che persone di talento come sono spesso i ricercatori lavorano in laboratorio anziché dedicarsi ad attività produttive, come dirigere una nuova company tecnologica? Quanto costa mettere a punto strategie di difesa ambientale da danni provocati da tecnologie avanzate (scontato il riferimento al disastro della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico)? Quanto costa gestire pazienti anziani mantenuti in vita da nuovi trattamenti di frontiera?
Per affrontare il problema in modo più “scientifico” si stanno mettendo in campo in alcuni paesi programmi di ricerca specifici. Come l’americano Star Metrics (Science and Technology in America’s Reinvestment ― Measuring the Effects of Research on Innovation, Competitiveness and Science), che ha l’obiettivo di misurare l’effetto degli investimenti federali in ricerca sull’impiego, le pubblicazioni scientifiche e l’attività economica. E sempre negli Usa, è stato appena avviato un progetto di ricerca da 8 milioni di dollari l’anno per approfondire alcuni aspetti di economia della ricerca scientifica, a partire dall’impatto delle recenti misure di sostegno introdotte da Obama.