POLITICA – Passato in Senato il ddl Gelmini sulla riforma dell’Università. All’orizzonte una rivoluzione per i ricercatori, e un nuovo sistema di governance. Ma l’insoddisfazione resta alta.
Il primo step è concluso: il 29 luglio scorso il Senato ha approvato la riforma dell’Università targata Mariastella Gelmini. Ora la strada parlamentare porta alla Camera, dove il ddl verrà discusso in autunno, con la prospettiva di un’approvazione che dovrebbe arrivare entro la fine dell’anno.
E se a Montecitorio il testo della legge non verrà stravolto sarà uno tsunami, in particolare per quanto riguarda due aspetti fondamentali dell’organizzazione universitaria: il reclutamento di ricercatori e professori e la governance degli atenei .
Destinata a saltare la figura del ricercatore a tempo indeterminato come l’abbiamo conosciuta finora; sarà infatti sostituita da quella del ricercatore a tempo determinato (contratto da 3 anni oppure da 3 anni più 2, non rinnovabili). Terminato il contratto, se il ricercatore sarà ritenuto valido dal suo ateneo – e avrà ottenuto nel frattempo l’apposita abilitazione – verrà confermato direttamente come professore associato. Altrimenti grazie e arrivederci. Il modello di riferimento è quello della cosiddetta tenure track americana: io ateneo o centro di ricerca ti assumo a tempo determinato e se ti riveli in gamba alla fine ti stabilizzo con una posizione permanente. Sulla carta non sembra neanche così male, e del resto spesso si addita quello americano come un sistema di ricerca che funziona decisamente meglio del nostro. “Peccato che negli Stati Uniti la tenure track preveda a priori che ci sia anche un budget a disposizione per la stabilizzazione. Esattamente quello che mancherebbe nel nostro paese”, commenta con amarezza il fisico Francesco Sylos Labini, ricercatore presso l’Istituto dei sistemi complessi del Cnr e il Centro Enrico Fermi di Roma, autore insieme al collega Stefano Zapperi, del Cnr di Modena del bel libro I ricercatori non crescono sugli alberi (qui il blog).
Come dire: la tenure track sarà pure una cosa bellissima, ma funziona se c’è un sistema strutturalmente in grado di garantire il suo sbocco naturale verso la posizione permanente. Se questo sistema non c’è – in altre parole se mancano i fondi, come di sicuro succederà nel nostro Paese – che ne sarà dei ricercatori a tempo determinato una volta finito il contratto?
E tutto questo senza considerare l’altro corno del problema, e cioè il merito. Il punto è che stabilire il merito – condizione essenziale per premiare i meritevoli e allontanare o disincentivare chi non lo è – non è affatto un’operazione semplice. Ci vogliono strumenti, indagini, elaborazioni, e naturalmente soldi per farlo. “Dell’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca, tanto citata nel testo della riforma, si parla ormai da anni”, afferma Sylos Labini. “Io, però, di concreto non ho visto ancora niente”.
Di fronte a queste considerazioni, la seria preoccupazione è che ci si stia apprestando a formare, nei prossimi anni, un esercito di giovani ricercatori che non avranno alcuna prospettiva concreta di carriera: un quadro già abbastanza fosco, ma non è tutto. Perché non si tratta “solo” di giovani che non riescono ad arrivare a posizioni a cui dovrebbero poter ambire, ma anche di assoluta mancanza di turnover. “Nei prossimi 10 anni andrà in pensione circa il 50% del corpo docente, ma in base ai fondi stanziati per la riforma si potrà coprire solo il 10% dei posti lasciati liberi”, afferma Gianluca Introzzi, ricercatore dell’Infn e dell’Università di Pavia e membro del Coordinamento nazionale ricercatori universitari. Quindi: da un lato giovani ricercatori senza prospettive sicure, dall’altro un’università con un personale docente ridotto al lumicino. E in mezzo i “vecchi” ricercatori, quelli tradizionali a tempo indeterminato, che rischiano di finire in un limbo, di essere scavalcati nelle scarsissime occasioni di avanzamento di carriera dai ricercatori tenure track.
“È un dramma”, dice Introzzi. Per questo, molti ricercatori hanno confermato, per l’inizio del nuovo anno accademico, l’indisponibilità a incarichi didattici non previsti dalla legge. Come abbiamo già raccontato, i ricercatori spesso si assumono l’onere di corsi che, di fatto, non spetterebbero a loro. “Una situazione che andava sanata, mentre la riforma non fa che peggiorare le cose”. Si stima che siano tra il 50% e il 60% dei quasi 25.000 totali i ricercatori che hanno dichiarato indisponibilità ad iniziare l’attività didattica. Se tutti terranno fede all’impegno preso, sarà di fatto la paralisi dell’università.
“E invece di preoccuparsi di questi problemi, ci si occupa di governance”, commenta Sylos Labini. Pronto a cambiare, infatti, anche tutto il sistema organizzativo dell’Università: più poteri al rettore, netta distinzione tra le funzioni del senato accademico e del consiglio d’amministrazione e istituzione della nuova figura del direttore generale, a sostituzione di quella del direttore amministrativo. Al direttore generale e al Cda, che sarà costituito dal rettore, da una rappresentanza degli studenti, e da “personalità italiane o straniere in possesso di comprovata competenza in campo gestionale ovvero di un’esperienza professionale di alto livello”, non appartenenti all’ateneo, spetteranno in particolare le responsabilità del bilancio e della programmazione finanziaria. “Il tentativo è di trasformare le università come se si trattasse di Asl o di tante piccole Rai, in cui piazzare gli amici: una riorganizzazione di cui francamente non si sentiva alcun bisogno”, dice Sylos Labini. Che precisa: “A queste condizioni, era meglio lasciare tutto come prima”. D’accordo anche Introzzi per il quale, di fatto, la riforma è una manovra da ancient regime. “Gli ordinari saranno sempre meno, ma avranno sempre più poteri e responsabilità, mentre associati e ricercatori vivranno solo nell’ombra”.
Per i ricercatori, dunque, la riforma è bocciata su tutta la linea. Ma che cosa ne pensa chi sta più in alto? In prima battuta, il giudizio della Crui, Conferenza dei rettori, sembra sicuramente più positivo. “L’impianto generale della riforma mi sembra buono”, afferma il presidente Enrico Decleva, rettore dell’Università statale di Milano. “Si affrontano in modo coerente varie criticità della vita universitaria italiana, in particolare riguardo all’annoso problema del reclutamento dei professori associati e ordinari e alla governance”. Qualche battuta in più, però, ed emergono anche le critiche. Sulla composizione del senato accademico, per esempio: “Sono previsti troppi vincoli, vorremmo più autonomia”, dice Decleva. Che sottolinea anche l’urgenza di trovare una soluzione per i ricercatori tradizionali: “Bisogna prevedere un piano straordinario di reclutamento, che ne garantisca il passaggio ad associati”. In fin dei conti, anche per i rettori il vero nodo critico è quello della sostenibilità economica della riforma. “Se ci sono i soldi per attuarla ha senso, altrimenti no. Per esempio: a noi piace anche l’idea di un consiglio d’amministrazione che si apra a cariche esterne, ma che senso ha mettere in piedi tutto questo solo per gestire una decadenza?”.