Nel Mediterraneo muoiono ogni anno diecimila cetacei, uccisi dalle reti derivanti. Il WWF accusa: strage quotidiana. Manca una legge? No, mancano i controlli.
L’ultimo sequestro risale ai primi giorni di luglio quando la guardia costiera di Otranto ha fermato un peschereccio che aveva a bordo 10 km di “reti da posta derivanti” utilizzate per la cattura del pesce spada, da cui prendono il nome spadare. Secondo Legambiente nell’ultimo anno sono state sequestrate 133 km di spadare, ma per avere un’idea della gravità del fenomeno nel Mediterraneo basta dare uno sguardo a questi dati: 800 km di reti sequestrate dalla guardia costiera nel 2005, 400 nel 2006, 700 nel 2007 e 600 nel 2008. L’anno scorso tre sequestri furono particolarmente significativi: alle isole Eolie vennero confiscati 45 km di reti e 2 tonnellate di tonno rosso, 57 km di rete nel golfo di Taranto e nel canale di Sicilia fu intercettata l’imbarcazione Federica II che nascondeva nella stiva 16 pesci spada e otto esemplari di tonno rosso al di sotto della taglia minima consentita. Tutti pescati con i 10 km di rete che erano a bordo del peschereccio.
Nel nostro paese le spadare, tristemente note come muri della morte, hanno conosciuto un rapido sviluppo negli anni ottanta poiché ottimizzavano il numero di catture (molto superiori alle tecniche tradizionali) e il lavoro che richiedeva una manodopera poco specializzata. Sono lunghe fino a 20 km e le ampie dimensioni delle maglie, larghe dai 18 ai 34 cm, permettono la cattura indiscriminata di squali, tartarughe, pesci luna, tonni e cetacei. Compreso il più grande predatore del Mediterraneo, il capodoglio (Physeter macrocephalus). Secondo il WWF a causa delle spadare ogni anno muoiono in Mediterraneo 10.000 tra delfini e balene. Agli inizi degli anni novanta la flotta italiana arrivò a disporre, secondo una stima al ribasso, di oltre settecento barche per un totale di 8500 km di reti. Ecco perché per fermarne l’utilizzo si sono scomodate prima le Nazioni unite, nel 1992, o poi l’Unione Europea, che nel 1997 ha dichiarato illegale l’utilizzo di queste reti “per assicurare la protezione delle risorse biologiche marine” ma il bando totale delle spadare è entrato in vigore 5 anni più tardi, dal 1 gennaio del 2002.
Il governo italiano, tra il 1997 e il 1999, varò un Piano spadare: investì l’equivalente di 98 milioni di euro come rimborso per i pescatori che utilizzavano le reti derivanti. I soldi sarebbero serviti per smantellare le reti o riconvertirle in attrezzi da pesca meno impattanti. Al piano, la cui adesione era facoltativa, aderirono 578 pescherecci. All’appello ne mancavano ancora un centinaio che aderirono nel 2002 al secondo Piano spadare, questa volta obbligatorio secondo il regolamento dell’Unione Europea.
Però le spadare dai nostri mari non sono mai sparite, qualcosa evidentemente non deve aver funzionato. E gli inghippi sono venuti a galla in questi anni quando si è scoperto che non esisteva un censimento ufficiale del numero effettivo di imbarcazioni che usavano le reti derivanti, i controlli delle autorità erano carenti e la legge italiana non considerava reato la detenzione a bordo delle reti.
Inoltre lo stato italiano, che di fatto con i due piani spadare aveva comperato le reti dai pescatori, non si è mai preso la briga di ritirare le spadare e di fatto i pescatori ne rimanevano gli “illegittimi” proprietari. Chi prese i soldi si trovò davanti a due scelte; continuare a usare le reti o venderle. Per trovare un compratore era sufficiente alzare gli occhi verso sud fino a incontrare le coste dell’Africa che notoriamente non appartengono all’Unione Europea; i pescatori marocchini si dimostrarono clienti poco esigenti e ben disposti a spendere. Di fatto si instaurò un circolo vizioso: i pescatori marocchini rivendevano così il pesce spada sul mercato italiano.
Nel 2007 l’organizzazione internazionale Oceana (www.oceana.org) ha condotto una campagna per far luce sulla questione spadare, raccogliendo immagini nei porti italiani, in mare aperto e la documentazione sui contributi ricevuti dai pescatori. Il risultato fu che vennero scoperte 137 imbarcazioni battenti bandiera italiana che pescavano con le spadare. I proprietari di questi pescherecci avevano ricevuto ricompense per un totale di 900 mila euro. L’anno successivo Oceana ha pubblicato un dettagliatissimo rapporto (http://eu.oceana.org/en/eu/media-reports/publications/reports/italian-driftnets-illegal-fishing-continues) in cui denunciava la situazione di illegalità diffusa che si era creata.
Delle spadare se ne occupò anche la trasmissione Report che mandò a Cetraro e a Bagnara calabra, sede di una delle più importanti marinerie del Mediterraneo, l’inviata Sabrina Giannini. Il filmato mostrava chiaramente come l’uso delle spadare fosse una pratica comune (http://www.youtube.com/watch?v=O1Yt7YqSOjE) e di fatto legalizzata. Oceana ha continuato le sue indagini pubblicando nel settembre scorso l’ultimo rapporto in cui si stima che oggi più del 20% del pesce spada catturato in Mediterraneo deriva da attività di pesca illegale. Le barche che utilizzavano ancora le spadare però erano scese a 93. Nel frattempo l’Italia è stata condannata a pagare una multa dalla corte di Giustizia Europea per “non aver provveduto a controllare, ispezionare e sorvegliare” il proprio territorio né adottato “adeguati provvedimenti nei confronti dei responsabili delle infrazioni”.
La sensazione che qualcosa stia cambiando nell’atteggiamento dei pescatori la si è percepita lo scorso giugno quando a Bagnara Calabra, nel corso di una sorta di cerimonia pubblica, 280 chilometri di reti da posta derivanti sono state consegnate all’Autorità marittima da alcuni rappresentanti della marineria locale. Nella cittadina del basso tirreno reggino, la pesca rappresenta ancora una tra tra le prime fonti di reddito con una flotta che conta 500 addetti e un indotto commerciale che coinvolge più di 2000 persone. Anche dal Marocco però, paese tra i maggiori esportatori di pesce nel mondo, arrivano notizie confortanti dopo l’introduzione del divieto di utilizzo delle reti derivanti.