Dall’Osservatore romano la custode apprende che sulla rivista Liver Transplantation, Franco Bonaguidi del CNR e tre colleghi pubblicano una ricerca in cui la “religiosità è associata ad una sopravvivenza prolungata” dopo un trapianto di fegato. L’associazione sembra prematura
E’ andata così. 179 pazienti hanno compilato un questionario sul proprio atteggiamento religioso prima dell’intervento avvenuto tra il 2004 e il 2007. A 21 mesi di distanza 18 sono morti. Dall’analisi statistica, scrivono gli autori, risulta che
soltanto il fattore Ricerca di Dio e la durata di permanenza post-trapianto nel reparto di cure intensive erano indipendentemente associate alla sopravvivenza, anche una volta tenuto conto di età, sesso, stato coniugale, occupazione, educazione, eziologia virale, punteggio di Child-Pugh, tasso di creatinina nel siero, tempo trascorso tra questionario e trapianto, età del donatore, emorragia inter-operatoria, fattore Attesa di Dio e Fatalismo. I pazienti che non presentavano il fattore Ricerca di Dio erano più giovani di chi lo presentava, ma avevano una sopravvivenza più breve e un rischio di mortalità triplo. In conclusione, la religiosità è associata una sopravvivenza prolungata.
Quindi “cercare l’aiuto di Dio, avere fede in Dio, fidarsi di Dio e provare a percepire la volontà di Dio nella malattia” sembra procurare un grande beneficio. Turbata dall’assenza di gruppi di controllo – atei, agnostici o politeisti parimenti interrogati sulle proprie miscredenze attive e passive – e del tasso di mortalità generale per giovani e vecchi, la custode ha cercato invece l’aiuto di Nicola Misani dell’università Bocconi e di Paolo Innocenti dell’università di Uppsala. Confermano che i guai iniziano proprio a monte.
Bocconi (estratti)
1) C’è un possibile effetto di selezione perché il questionario è stato somministrato solo a volontari. E’ pensabile che atei e agnostici abbiano gentilmente (o anche no) rifiutato di rispondere, e magari sono quelli che sono sopravvissuti di più. Andavano confrontati i dati dei volontari con quelli degli altri pazienti (non rispondenti).
2) Mettiamo che non ci sia un effetto di selezione, lo studio dimostra solo che le persone con un atteggiamento religioso attivo (punteggi alti in domande come “Ho cercato di trovare la lezione di Dio nell’evento”) sopravvivono di più di quelle con un atteggiamento religioso passivo (punteggi alti in domande come “Ho lasciato che Dio risolvesse il problema per me”) e dei fatalisti (“Abbiamo un destino”). C’è un’ovvia interpretazione in cui la causa del risultato è la variabile atteggiamento attivo/passivo, non la religiosità. Qui sarebbero servite variabili di controllo psicometriche.
Uppsala (idem):
Innanzitutto il titolo è fuorviante. Non c’è niente nel questionario, le cui domande sono parecchio ridondanti, che valuti la religiosità degli individui in esame, nel senso di credere all’esistenza di un essere soprannaturale e praticarne i precetti. Al contrario, l’esistenza di Dio viene assunta nella formulazione delle domande. La Ricerca di Dio è considerata “attiva” e ha la correlazione più robusta (loading 84). Ma la seconda correlazione, che viene esplicitata come “Ho preso il controllo di quanto ho potuto, e per il resto ho lasciato che Dio mi aiutasse” (loading 81, scala non specificata), suggerisce una personalità forte e un atteggiamento positivo. Data la poca differenza tra 84 e 81 rispetto a quella del tasso di sopravvivenza forse il titolo doveva essere “La religiosità non è associata ad una sopravvivenza prolungata”.
La religiosità potrebbe risanare, ma dai dati di F. Bonaguidi et al. non si vede. Sono a disposizione di chi volesse cacciare le eventuali bufale della custode e dei suoi assistenti. Prima però, dovrebbe leggere, su PLoS Medicine, la meta-analisi di Julianne Holt-Lunstad et al. su quanto giova ai pazienti aver una cerchia di amici e parenti, o soltanto crederlo: riduce la mortalità del 50% almeno.
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