CRONACA

Vale la pena di salvare gli unicorni?

Un’altra specie in grave pericolo sulle pagine dei giornali

NOTIZIE – L’avvistamento di esemplari di animali rarissimi e bizzarri (i media di solito usano richiami mitologici, dallo yeti all’unicorno, come in questo caso) negli ultimi tempi risveglia in me un senso di pietà. Le immagini che vengono diffuse ritraggono spesso animali in fin di vita. Se il caso precedente è da archiviare nella categoria bufale, l’ultimo avvistamento invece si riferisce a una specie reale e “gravemente minacciata”. È infatti di qualche giorno fa la notizia del primo avvistamento confermato degli ultimi dieci anni di un esemplare di saola (Pseudoryx nghetinhensis), un animale davvero rarissimo che vive sul confine fra Laos e Vietnam. Nonostante l’animale abbia due corni, viene definito l’unicorno asiatico. Teorie adudaci si spingono persino a ipotizzare che proprio il saola – che qualcuno, senza prova alcuna, pensa abbia vissuto anche in Cina, in epoca preistorica – è il responsabile della vasta mitologia cinese sugli unicorni.

Al di là dello scalpore mitiologico, la specie è in serissimo pericolo (l’esemplare catturato, per inciso, è morto qualche giorno dopo che è stata scattata questa foto), gli esperti stimano che solo qualche centinaio di esemplari viva ancora allo stato brado (e nessuno in cattività). Per l’ennesima volta i media lanciano l’allarme.

Sarà un’impressione ma mi chiedo se in mezzo a tutte queste “emergenze biodiversità”, il pubblico a volte non rischi di perdere un po’ il senso profondo della questione. È un meccanismo psicologico ben noto: l’attenzione resta alta quando gli allarmi sono sporadici, ma nell’emergenza continua la tensione, e l’attenzione, si allentano.

Non è solo il fattore mediatico a lasciare perplessi. Per esempio a me capita di restare sbalordita davanti agli sforzi di biologi e animalisti per salvare questa o quella specie. Mi viene per esempio in mente un rarissimo rospo africano, che vive solo in un fazzoletto di terra costantemente bagnato dall’aerosol prodotto dalle cascate del fiume Kihansi in Tanzania, che i biologi hanno catturato nella speranza di salvare in cattività (con costi altissimi). Il saola è in una situazione tutto sommato simile anche se, forse per fortuna per lui, è difficilissimo da individuare dunque catturare.

Talvolta per salvare una specie vengono spese enormi quantità di denaro per avere pochi, spesso malconci, esemplari in cattività. La qualità di vita di questi animali non è delle migliori, e spesso la reintroduzione in natura è davvero difficoltosa, un po’ perché gli animali cresciuti in cattività non si abituano così facilmente alla vita selvaggia, ma anche soprattutto perché spesso non esiste più un ambiente in grado di accoglierli (anche perché se questo fosse preservato in linea di massima non ci sarebbero nemmeno minacce all’estinzione della specie)

Non vorrei essere fraintesa. Una parte di me apprezza questi sforzi. Ma – lo so è un pensiero banale – credo che piuttosto che eliminare i sintomi, bisognerebbe curare la malattia. Oggi le attività umane, il profondo mutamento del territorio (e del clima) sono di origine antropica. La causa dell’estinzione di molte specie siamo noi, senza dubbio, e  non sappiamo davvero quali saranno le conseguenze di una drastica riduzione della biodiversità sul nostro ambiente.

Ora il saola resterà per un po’ sulle pagine dei giornali, a catturare la curiosità e le preoccupazioni del pubblico. Con un po’ di fortuna verrà forse varato un programma di protezione. A questo punto rilancio la palla ai nostri lettori: vale la pena di salvare artificialmente specie rarissime, come il saola o i rospi a spruzzo del Kihansi o sarebbe meglio dirottare i fondi verso politiche serie di protezione dell’ambiente originario? Certo in un mondo ideale la seconda sarebbe certamente la soluzione più auspicabile, ma essendo nella realtà dei fatti un obiettivo davvero ambizioso qualcuno potrebbe anche pensare che sia meglio porsi mete più circoscritte e realizzabili…

Condividi su
Federica Sgorbissa
Federica Sgorbissa è laureata in Psicologia con un dottorato in percezione visiva ottenuto all'Università di Trieste. Dopo l'università, ha ottenuto il Master in comunicazione della scienza della SISSA di Trieste. Da qui varie esperienze lavorative, fra le quali addetta all'ufficio comunicazione del science centre Immaginario Scientifico di Trieste e oggi nell'area comunicazione di SISSA Medialab. Come giornalista free lance collabora con alcune testate come Le Scienze e Mente & Cervello.