STORIA – Vivere in comunità ci ha resi più suscettibili alle infezioni. Con il tempo, però, è comparsa una soluzione – evolutiva – al problema.
La nostra storia (e preistoria) e l’ambiente in cui siamo vissuti, oltre che le sue continue trasformazioni, hanno profondamente influenzato la nostra biologia. Non che questa sia una grossa novità: in fin dei conti non si tratta che di evoluzione. La novità, oggi, sta piuttosto in un bell’esempio di queste influenze, che lega urbanizzazione e malattie infettive .
Prima di arrivare all’esempio, però, un minimo di retroscena. È opinione comune tra gli studiosi di storia della medicina e della salute, che le malattie infettive abbiano svolto un ruolo fondamentale nell’indirizzare la storia della salute umana e nel plasmare la struttura genetica delle popolazioni. Si ritiene che l’impatto delle malattie infettive sia aumentato drasticamente con il passaggio all’agricoltura e ancor più con la fondazione di villaggi, dove i nostri antenati vivevano molto più vicini di quanto facessero i cacciatori-raccoglitori. Questa condizione avrebbe facilitato il passaggio da un individuo all’altro di organismi e microrganismi patogeni la cui diffusione, peraltro, era già favorita dalla stretta vicinanza con gli animali ormai addomesticati. Trovare prove concrete di questo scenario, però, non è semplicissimo, ed è qui che entra in gioco l’esempio di cui dicevamo. A proporlo, in un’anticipazione online di Evolution, sono Mark Thomas, professore di genetica evolutiva all’University College di Londra, e colleghi.
I ricercatori hanno pensato che se così sono andate le cose – cioè se c’è stata un’associazione tra uno stile di vita stanziale, in situazioni di elevata densità di popolazione, e un particolare carico di malattie – allora deve esserne rimasta traccia genetica nelle popolazioni attuali. In particolare: nelle popolazioni che vivono in regioni del mondo con alle spalle una storia più antica di insediamenti urbani, la resistenza a quelle malattie dovrebbe essere più frequente che in altre. Per mettere alla prova questa idea, Thomas e collaboratori hanno calcolato la frequenza, in varie popolazioni, di una specifica variante di un gene associata a resistenza alla tubercolosi e probabilmente ad altre malattie infettive come la lebbra. Le popolazioni prese in considerazione sono state 17, distribuite in tutto il Vecchio mondo: per tutte si è individuata, sulla base di informazioni storiche e archeologiche, una data indicativa di creazione di un primo insediamento urbano. L’insediamento più antico, in Turchia, risaliva a 6000 anni a.C; il più recente, in Sudan, al 1919.
L’analisi dei dati raccolti ha confermato l’ipotesi: le popolazioni che vivono in regioni con gli insediamenti più antichi hanno una frequenza della variante genica associata a resistenza più elevata delle altre (e in generale molto elevata). Riassumendo: il fatto di vivere in comunità ci ha dato vantaggi, ma anche svantaggi, come per esempio una maggior suscettibilità alle infezioni. Con il tempo, però, ci siamo organizzati per resistere. O meglio: la selezione naturale ha appunto selezionato quelle varianti geniche che assicuravano una maggior protezione contro virus, batteri e parassiti.