NOTIZIE – Col senno di poi, fu un prodromo rilevante di tutto quello che seguì: nel marzo 2001 (dieci anni fa) le imponenti statue dei budda della valle di Bamiyan vennero fatti esplodere dal governo talebano allora al potere in Afghanistan (perché considerati idoli blasfemi rispetto alla fede musulmana). Un’ondata di indignazione (le statue erano considerate patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, la United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) si alzò in tutto il mondo. Pochi mesi dopo, arrivarono l’attacco alle Torri Gemelle (rivendicato da Al-Qaeda) e la successiva dichiarazione di guerra degli Stati Uniti all’Afghanistan, accusato di aver dato rifugio ai terroristi. Tanta violenza verso la cultura, l’arte e la storia di un paese avrebbe dovuto mettere in allarme tutti, forse. Così è andata, e oggi si raccolgono i cocci, letteralmente. C’è infatti chi studia i resti delle splendide e gigantesche sculture che furono. Erwin Emmerlich della Technischen Universität München in Germania ha reso pubblica in questi giorni una nuova datazione, che sposta in avanti di qualche secolo la costruzione delle opere, e ha dimostrato che erano originariamente dipinte con colori vivaci.
Analizzando con la tecnica della spettrometria di massa (una metodologia per datare i materiali) le sostanze organiche contenute nell’argilla usata per il rivestimento delle statue, Emmerlich ha valutato che il primo budda, quello più piccolo (38 metri), è stato costruito fra il 544 e il 595 d.C., mentre l’altro (55 metri di altezza) fra il 591 e il 644 d.C.
Finora gli esperti, coerentemente con la foggia degli “abiti” indossati dalle statue, avevano ritenuto che le statue risalissero al terzo secolo d.C.
Dai documenti (per esempio racconti di viaggiatori dell’undicesimo secolo) storici inoltre risultatva che i budda fosse colorati vivacemente, ma erano sempre mancate le prove. Ora Emmerlich ha analizzato i resti e ha trovato tracce di pigmenti. I budda erano coloratissimi, spiega lo scienziato, e sono stati dipinti più volte. Secondo i suoi dati uno dei due aveva le vesti rosa e arancioni (con un bordo blu) mentre l’altro era bianco.
La struttura delle statue è stata ricavata scavando direttamente nel fianco roccioso della valle dove sorgevano le statue, ma gli “abiti” sono stati fatti con una mistura di paglia, fieno, pelo animale, quarzo e ricoperti di argilla. Le statue inoltre avevano delle parti in legno (la struttura delle braccia, la base e presumibilmente la faccia) rafforzate con corde.
Per quanto riguarda la ricostruzione, sembra non esserci molto da sperare. Anche se Emmerlich ritiene che per il più piccolo sarebbe possibile un parziale restauro, i costi sono presumibilmente elevati (i più di mille frammenti disponibili andrebbero inviati in Germania per il trattamento, per poi esser e “incollati” con un materiale sintetico resistente alle intemperie). Al momento però, come dichiarano i portavoce dell’UNESCO, lo sforzo è quello di consolidare le nicchie in cui una volta erano contenute le statue e nel costruire un piccolo museo all’aperto.
Emmerlich oggi presenterà i risultati delle sue ricerche a un incontro dell’UNESCO a Parigi per commemorare i dieci anni dalla distruzione dei Budda.