TERREMOTO – “È ancora presto per una stima precisa dei danni strutturali provocati dal terremoto, anche perché tutte le informazioni che circolano al momento riguardano la situazione alla centrale nucleare di Fukushyma e i danni da tsunami”. A parlare è Yoshiki Ikeda, del dipartimento di ingegneria strutturale della Kajima Corporation, una delle cinque grandi firme di architettura (insieme a Obayashi, Shimizu, Taisei e Takenaka) che dalla fine dell’Ottocento a oggi hanno contribuito a rendere il Giappone il paese più avanzato al mondo in fatto di ingegneria e design urbano antisismici. Al momento del sisma di venerdi scorso, Yoshiki Ikeda si trovava nel suo ufficio a Tokyo: “Nel nostro edificio abbiamo sperimentato un’accelerazione pari a quella di un terremoto di media entità. Abbiamo avuto piccoli danni all’interno, ma nessuno strutturale, e direi che – almeno per quanto ho potuto sapere finora – non ci sono in città danni strutturali. Del resto, a Tokyo, come pure in molte altre parti del Giappone molti edifici sono costruiti con stringenti criteri antisismici”.
Già, lo ripetono in molti in questo momento. Il bilancio del terremoto e dello tsunami che venerdì scorso hanno colpito il Giappone è orrendo e drammatico, con oltre 6000 decessi accertati (e il conteggio è sicuramente destinato a salire), ma è molto probabile che la situazione avrebbe potuto essere ben peggiore, se solo il Giappone non fosse stato il Giappone. Un paese, cioè, non solo abituato a convivere con i terremoti (ce ne sono per pranzo, per colazione e per cena, come scriveva nel 1876 l’ingegnere minerario inglese John Milne, appena arrivato a Tokyo per una docenza temporanea all’università), ma soprattutto attivo da molto tempo in una precisa strategia di prevenzione e gestione del rischio sismico. Non per nulla, il Giappone è stato il primo paese al mondo a istituire una cattedra universitaria di sismologia (1886) e uno dei primi, insieme all’Italia, nella metà dell’Ottecento, a gettare le basi dell’ingegneria antisismica. Da allora in continuo sviluppo, parallelamente a una legislazione sulle costruzioni sempre più stringente a ogni aggiornamento (in genere successivo a grandi terremoti).
Tre i punti di forza principali di questa strategia di sicurezza. Primo: i materiali da costruzione. Già dagli anni venti del secolo scorso, il Giappone si è specializzato nella produzione di diverse varietà di cemento armato, concentrandosi oggi soprattutto sul cemento precompresso. L’utilizzo di questo materiale, caratterizzato da una tensione interna prodotta artificialmente per migliorarne la resistenza, permette alle strutture sottoposte all’accelerazione di un terremoto di tornare nella posizione originale dopo lo shock senza frantumarsi. E quindi senza richiedere, dopo, lunghi e costosi interventi di riparazione. Come dire: l’obiettivo non è neppure più evitare che gli edifici collassino, ma addirittura che si danneggino.
Secondo: l’isolamento sismico degli edifici, che vengono “appoggiati” su speciali strutture capaci di assorbire l’energia trasmessa durante un terremoto, in modo che l’edificio stesso oscilli, ma senza cadere. Si tratta in genere di cuscinetti di gomma o di acciaio con proprietà elastiche, che possono essere utilizzati anche per edifici già esistenti: basta “tagliarli” alla base e inserire i cuscinetti stessi. Dopo il grande terremoto di Kobe nel 1995, in tutto il Giappone c’è stato un vero e proprio boom di edifici isolati. Terza strategia: il controllo attivo, ritenuta da molti commentatori l’innovazione più grande mai proposta in fatto di ingegneria antisismica. In pratica, gli edifici sono dotati di sistemi, come masse inerziali e pendoli, capaci di contrastare attivamente le forze applicate dal terremoto.
“Certo, è vero che l’epicentro del terremoto di venerdì scorso è stato abbastanza distante dalla costa del Giappone, per cui sulle isole lo scuotimento del suolo non è stato così intenso come è successo in passato per terremoti pure di magnitudo inferiore, per esempio 6 o 7” afferma Robert Reitherman, direttore del Consorzio universitario internazionale per la ricerca in ingegneria antisismica (Curee), con sede a San Francisco. “Però è indubbio che gli altissimi standard costruttivi del Giappone abbiano fatto la loro parte nella difesa della popolazione”.
Il problema, purtroppo, è stata la successiva e devastante onda di tsunami, rispetto alla quale la possibilità di difesa è stata inevitabilmente minore. “Certo, alcune strutture protettive si possono realizzare, ma è impossibile pensare di costruire muri massicci di difesa che corrano lungo tutte la costa”, precisa Reitherman. “In alcuni punti in Giappone, come pure in altre aree del mondo soggette a tsunami, sono stati realizzati alcuni rifugi a prova di tsunami. Si possono immaginare come piccoli fari: la gente può correre al piano superiore e aspettare lì i soccorsi”. Ci sono anche tentativi di costruzione di edifici resistenti, anche questi in Giappone e California. “Le tecniche principali sono due: lasciare libero, senza pareti, il piano inferiore di ogni edificio, in modo che l’acqua e i rifiuti, alla loro massima velocità, possano scorrere liberamente, senza incontrare ostacoli. Allo stesso scopo, prevedere grandi aperture – finestre, porte – proprio nella direzione da cui è previsto l’arrivo dell’onda in caso di tsunami”.
Se l’onda però è particolarmente devastante, come è successo proprio questa volta, è difficile che anche queste tecniche possano servire a molto: abbiamo tutti negli occhi le tremende immagini di intere abitazioni strappate al suolo e trascinate via come fossero le casette del Lego. “Non c’è niente da fare: per salvare vite umane, la strategia primaria rimane l’avvertimento precoce e la fuga”, sottolinea l’esperto americano. “Del resto, i giapponesi che vivono sulla costa conoscono bene una regola d’oro: appena senti un terremoto, scappa il più lontano possibile dall’acqua. Purtroppo, non sempre questo è possibile, magari perché l’onda arriva troppo presto. O perché si pensa di avere il tempo di tornare a casa a recuperare qualcosa o a controllare che siano tutti fuori. È terribile, ma in casi come quello appena successo in Giappone, la perdita di vite umane è ancora inevitabile”.