SPECIALE REFERENDUM – Ci siamo: i referendum del 12 e 13 giugno si avvicinano ed è il momento di ricapitolare le posizioni. Qui ci occupiamo dei quesiti sull’acqua, dando voce in prima battuta a chi si è sempre opposto ai referendum stessi e tra tre settimane starà a casa oppure andrà a votare NO. Nei prossimi giorni sentiremo chi è pronto a tracciare la sua croce sulle caselle del SÌ. Prima di entrare nel vivo, rivediamo i quesiti. Il primo chiede l’abrogazione del cosiddetto decreto Ronchi (articolo 23-bis della legge 133/2008), che ha reso obbligatoria (salvo rare eccezioni) l’istituzione di una gara a evidenza pubblica per l’affidamento della gestione dei servizi idrici o a imprenditori e società privati oppure a società miste pubblico/privato. Il secondo chiede l’eliminazione del criterio del profitto tra quelli che contribuiscono a definire le tariffe del servizio idrico. In realtà, nella presentazione delle due posizioni e nella discussione di merito, i due quesiti tendono in genere a essere considerati insieme.
“La vittoria del sì ai due referendum sull’acqua farebbe saltare per aria un equilibrio precario nella gestione delle risorse idriche che si è raggiunto a fatica negli ultimi anni , riportando l’Italia a una gestione prevalentemente pubblica, con tutti i grossi limiti che questo comporta. Con il mantenimento del decreto Ronchi, invece, si consentirebbe la prosecuzione di un processo di liberalizzazione altrimenti impossibile”. Parola di Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni e tra i promotori del comitato Acqua libera tutti (politicamente trasversale). Stagnaro non ha ancora deciso che cosa farà il 12 e 13 giugno: “Dipenderà dall’affluenza. Se sarà alta, andrò anche io a dire il mio no; altrimenti resterò a casa”. Annalisa Chirico, esponente radicale e altro membro del comitato, invece, andrà sicuramente a votare – “Il referendum è un istituto democratico e come tale va salvaguardato e non sabotato” – esprimendo due no convinti.
Ma perché “pubblico è male” (o, in altri termini, “privato è meglio”)? E perché non lasciare libera scelta agli enti locali sulla modalità di gestione (pubblica o privata) del servizio idrico, come era possibile prima del decreto Ronchi? “Perché la gestione pubblica non garantisce né trasparenza né efficienza e, di fatto, non presenta condizioni favorevoli per la partecipazione di privati, anche quando questa sarebbe teoricamente possibile”, chiarisce Stagnaro. Vediamo meglio.
“Servono due dati: al momento, per erogare ai cittadini 100 litri di acqua, dobbiamo prelevarne alle fonti 165 litri, con uno spreco del 39%. Per ammodernare la rete, occorrono 60 miliardi di euro. Ce le hanno, gli enti pubblici, tutte queste risorse?”, chiede Chirico. “Chiaramente non le hanno e recuperarle è difficile. Un aumento delle tariffe non sembra proponibile: quale sindaco vorrebbe chiudere il proprio mandato annunciando di aver aumentato le tariffe per l’acqua? Ecco uno dei problemi principali: in un sistema statalizzato, le tariffe vengono stabilite in base a criteri politici”. Chirico, inoltre, ricorda che le tariffe per il servizio idrico italiano sono tra le più basse d’Europa: “Una situazione che da sola alimenta gli sprechi: chi si preoccupa di risparmiare acqua, se tanto costa poco?”.
I “controrefendari” temono che l’unica via per recuperare risorse pubbliche sia quella della fiscalità generale, cioè delle tasse: insomma, acqua pubblica, ma con più tasse. “Chi sostiene il referendum in realtà ritiene che la copertura per un servizio idrico pubblico ci sarebbe, a patto di risparmiare tagliando spese inutili (citano il ponte sullo stretto di Messina) o con la lotta all’evasione fiscale. Però è una risposta che non sta in piedi”, precisa l’economista Armando Massarutto. “Pochi o tanti che siano, i soldi pubblici servono per finanziare altri capitoli di spesa: il welfare, l’istruzione, la ricerca, che non sono finanziabili altrimenti. L’acqua non può essere un ‘pasto gratis’ per tutti e sostenerlo è irresponsabile o disonesto”.
E i privati, in tutto questo? Non potrebbero avere un ruolo, anche senza che la loro partecipazione sia resa obbligatoria? “Il problema è che questo difficilmente avviene, perché senza alcuni limiti, come quelli posti dal decreto Ronchi, non ci sono incentivi per la partecipazione privata, che anzi rischia di essere in balìa del sindaco di turno. Oggi va bene, domani cambia il vento e chissà: chi può fare investimenti sereni in un contesto simile?”, domanda Stagnaro. Le parole chiave dei “controreferendari” sono liberalizzazione, efficienza e apertura al mercato e il loro punto di vista è che tutto questo non sia possibile, nei fatti, se si torna indietro, in una condizione che favorisce la gestione pubblica, “spesso politicizzata e clientelare” dice Chirico, a quella privata. “Al contrario, bisogna mettersi in una condizione in cui al momento dell’affidamento della gestione del servizio si valutano in modo trasparente le varie proposte, scegliendo quella che sembra garantire la massima efficienza, con tariffe adeguate. Certo, queste tariffe potrebbero anche essere più alte di quelle attuali, ma non dimentichiami che il servizio costa, che ci vogliono forti investimenti per mantenerlo. L’importante, è che ci sia un collegamento diretto e trasparente tra questi investimenti, i risultati ottenuti e le tariffe””.
In realtà i controreferendari non ritengono che il decreto Ronchi sia la migliore delle leggi possibili, anzi: “è sicuramente migliorabile”, dichiara Chirico. Però, secondo la loro posizione, è comunque un punto di partenza fondamentale. Anche perché, ricordano, non riguarda solo l’acqua, ma anche altri servizi locali, come la gestione dei rifiuti o i trasporti, che ugualmente traggono beneficio da un sistema di gare obbligatorie per società private o miste. “Detto questo”, conclude Chirico, “in un sistema aperto ai privati occorrerà mettere in campo anche sistemi di controllo che vigilino sulla correttezza dei gestori e sull’efficienza delle soluzioni proposte”.