CRONACA – Un biodiritto che si fondi su libertà e dignità personale è il modo migliore per affrontare seriamente le nuove e difficili sfide che la scienza pone al diritto. Questo, in sintesi, il pensiero intorno al quale il giurista Stefano Rodotà ha impostato la sua lezione magistrale tenuta ieri a Carpi in occasione del Festival Filosofia 2011. Organizzato nelle città di Modena, Carpi e Sassuolo, il Festival è giunto alla sua undicesima edizione e quest’anno ha trattato il tema della natura. A Rodotà gli organizzatori hanno chiesto di definire un concetto complesso comparso sulla scena da pochi anni: il biodiritto, appunto.
Rodotà puntualizza subito: “Il biodiritto non deve essere una disciplina fra le tante. È una sorta di risposta spontanea a un problema di libertà che la scienza pone agli individui e ai legislatori”. Specifica Rodotà: “La scienza e il suo avanzare in campo biologico e medico consentono ai cittadini di prendere decisioni su questioni prima non riservate al nostro arbitrio, come nascita e morte. Al biodiritto spetta definire queste questioni”. Rodotà quindi definisce la sua idea di biodiritto: “Deve ispirarsi al riconoscimento della autodeterminazione della persona: ciò pone dei limiti invalicabili alla politica e alla giurisprudenza”. Il giurista definisce il corpo di ogni individuo come un terreno sacro sul quale lo Stato non può permettersi di legiferare obbligando il singolo ad accettare interventi, cure o pratiche non desiderate. Un modello per fondare questo tipo di biodiritto esiste già ed è l’articolo 32 della Costituzione Italiana. Rodotà lo cita a memoria, sottolineando il passaggio in cui i costituenti affermano che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Un articolo di grande lucidità, un esempio di grande lungimiranza giuridica fortemente voluto, ricorda Rodotà, da un politico cattolico come Aldo Moro.
Rodotà cita quindi due leggi che negli ultimi anni (e mesi) hanno infiammato il dibattito bioetico in Italia. I riferimenti sono alla Legge 40 sulla procreazione assistita e quella sulle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT), anche nota come testamento biologico. Secondo Rodotà queste leggi sono frutto di una concezione errata del biodiritto. Un biodiritto ricco di divieti (nel caso della Legge 40) e di imposizioni (le DAT) che si pone come restauratore di un ordine naturale terribilmente scosso dalla scienza e dalla tecnologia. “La scienza e la tecnica hanno cancellato l’ordine naturale – afferma Rodotà – e allo stesso tempo hanno consegnato ai singoli un’eccedenza di libertà. Il diritto deve gestire questa nuova libertà senza però dimenticare autodeterminazione e dignità personale”.
La Legge 40 e la legge sulle DAT dimostrerebbero quindi una concezione di biodiritto invasivo che mette le mani sul corpo e sulla vita delle persone. Rodotà definisce quelle leggi il frutto della “difficoltà a metabolizzare socialmente le novità introdotte dalla scienza”. In particolare, Rodotà chiude attaccando la legge sul testamento biologico: “È una legge che impedisce l’autodeterminazione della persona, nel quale il legislatore veste i panni di medico e scienziato per limitare la libertà del singolo”.