Breve selezione delle innumerevoli ricerche che – con santa pazienza – misurano e tentano di prevedere l’impatto sulla fauna e la flora dell’aumento delle temperature e delle emissioni di gas serra.
AMBIENTE -Da un decennio si studiano le reazioni ai cambiamenti climatici di vari organismi, sopratutto se sono risorse alimentari per umani e non, fito- e zooplancton, cereali, animali d’allevamento. Gli effetti dipendono dall’ambiente, dalla capacità di spostarsi in un termoclino più confacente, dalla storia evolutiva di ogni specie; dai rapporti con le altre specie – umana compresa – dell’ecosistema; dal rango occupato nella catena alimentare ecc. Rispetto alla complessità della biosfera, quella del clima è modesta. Per il vivente i dati sono ancora carenti, frammentari, di modelli di evoluzione dinamica, non lineare e globale per ora non se ne vedono.
Però è possibile misurare le ripercussioni di alcuni cambiamenti sulla composizione degli ecosistemi o l’effetto di temperature più elevate sul metabolismo di una specie. Nel 2009 s’è appreso che il caldo rimpicciolisce le pecore Soay allevate nelle isole Orcadi, più tosate che mangiate, e nel 2010 che provoca un boom demografico fra le marmotte delle Rocky Mountains, nel Colorado. Ora su Nature Climate Change esce una prospettiva di Jennifer Sheridan e David Bickford dell’università di Singapore. Oltre a raccomandare progetti per ovviare alla carenza e frammentarietà dei dati, citano numerose osservazioni su ragni, scarafaggi, cicale, api o formiche, tutti rimpiccioliti dal caldo come pecore scozzesi. La variazione è più marcata negli organismi marini: un grado C in più riduce dal 6 al 22% la dimensione di molti pesci. Certe piante sono meno sensibili, in un esperimento in serra i frutti pesavano dal 3 al 17% in meno: più del caldo era decisiva la disponibilità di acqua.
Arrivano, inevitabilmente, alla stessa conclusione Michael Bogan e David Lytle che per otto anni hanno studiato le comunità di insetti acquatici nel French Joe Canyon che mezzo secolo fa scorreva tutto l’anno nel deserto dell’Arizona e nel 1990 era ancora costeggiato da una “lussureggiante vegetazione riparia”: felci, noci, querce, robinie… Su Freshwater Biology (qui l’articolo in bozza) descrivono “il cambiamento di regime” causato dalle siccità del 2005, e del 2008-2009. Attorno alle pozze rimaste nel letto del fiume, la vegetazione è misera. Le specie in cima alla catena alimentare, uccelli e grossi coleotteri, sono scomparse per prime, quelle intermedie sono calate solo all’inizio, quelle dei piccoli insetti sono aumentate di quaranta volte, un boom demografico da far invidia alle marmotte delle Rockies.
Se piove abbastanza e il terreno è fertile, agli alberi la CO2 fa proprio bene. Dal 1997 al 2008, Donald Zak dell’università del Michigan e colleghi hanno spruzzato CO2 sulle frondi di metà delle betulle, aceri e salici nella “foresta sperimentale del Wisconsin” (foresta per modo di dire!) e somministrato a metà di ciascuna metà dosi quotidiane di ozono che imitavano quello urbano di Los Angeles. Pubblicano i risultati su Ecology Letters. A temperatura e precipitazioni mediamente costanti, con l’aggiunta di CO2 gli alberi avevano più radicelle per catturare l’azoto del terreno e crescevano di un 26% in più. Con l’aggiunta di ozono nei primi anni crescevano rachitici, poi si abituavano e diventavano alti come quelli non inquinati anche se non raggiungevano la statura di quelli spruzzati con la CO2.
Teniamo l’articolo a disposizione di chi volesse incoraggiare i sindaci della Val padana a piantare nuovi alberi in città.
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Foto: Marmota flaviventris, Washington Nature Mapping Program