COSTUME E SOCIETÀ – Se uno per ben due volte nel giro di qualche anno si ritrova per caso in mezzo a rivolte etnico-politiche qualche domanda se la pone.
Oltre a fare gli scongiuri ogni volta che intraprende un viaggio, Emile Bruneau si è anche chiesto come mai un gruppo possa odiare tanto un altro.
Una domanda che probabilmente gli è nata schivando le pallottole durante i tumulti scoppiati alla caduta dell’apartheid nel 1994 in Africa, dove Bruneau lavorava come volontario. Oppure nel 2001, quando si è trovato nel bel mezzo dei violenti scontri tra le Tigri del Tamil e l’esercito mentre era far visita a un suo amico in Sri Lanka.
Fatto sta che ora, diventato ricercatore all’MIT di Boston, ha appena pubblicato uno studio su Philosophical Transactions of the Royal Society: Biological Sciences dove in pratica ha cercato di identificare i meccanismi neurologici nei conflitti tra gruppi.
Bruneau per molti anni ha anche lavorato come consigliere per le risoluzioni dei conflitti in Irlanda, partecipando a un programma per far socializzare i bambini cattolici e protestanti.
Proprio in seguito a questa esperienza si è reso conto che in realtà in queste situazioni c’è sempre un fattore che accomuna tutti: la sofferenza. Quali meccanismi ci fanno percepire quindi un’altra persona come nemica? Quali aree del cervello sono coinvolte?
Bruneau ha lavorato assieme a Rebecca Saxe, neuroscienziata e membro del McGovern Institute for Brain Research dell’MIT, per cercare di identificare i marcatori dell’attività cerebrale collegata all’empatia, nella speranza di usarli come metro per valutare l’effetto dei programmi di riconciliazione.
È bene chiarirlo subito: non ci sono riusciti. Non del tutto, almeno, perché qualcosa di interessante l’hanno scoperto. I due sono partiti da una loro ricerca precedente, i cui risultati sono stati pubblicati all’inizio di dicembre su Neuropsychologia. Lo studio ha dimostrato come le regioni del cervello coinvolte nella sofferenza emotiva siano sovrapponibili a quelle legate all’abilità nel percepire ciò che un’altra persona sta pensando o provando.
Per gli scopi della nuova ricerca hanno chiesto ad alcuni israeliani e arabi di ascoltare storie di sofferenza che riguardavano i membri del proprio gruppo o del gruppo opposto. Oltre a ciò, i partecipanti hanno anche ascoltato vicende di sudamericani, un gruppo considerato equidistante da entrambi.
Come previsto, sia gli israeliani che gli arabi si sono dimostrati più compassionevoli rispetto alle sofferenze della propria etnia, ed entrambi hanno dimostrato maggiore empatia verso i sudamericani rispetto alla fazione opposta. Tuttavia l’imaging a risonanza magnetica ha dimostrato che nessuno è indifferente alle sofferenze altrui, nemmeno nei confronti dei supposti “nemici”. Si sono infatti attivate le stesse aree cerebrali corrispondenti al dolore emotivo anche quando il racconto riguardava la fazione opposta.
In sostanza, anche se in forma minore, siamo toccati anche dalle sofferenze dei nostri nemici, che ci piaccia o no.
Immagine: PSP Photos, Flickr.com (CC)