CRONACA – Niente da fare: resta valido, almeno per il momento, il divieto alla fecondazione eterologa (quella con gameti, cioè spermatozoi o ovociti, provenienti da donatori esterni alla coppia) posto dalla controversa legge 40 del 2004 sulla pma, procreazione medicalmente assistita. Chiamata a esprimersi sulla legittimità del divieto da tre ricorsi dei tribunali di Milano, Catania e Firenze, la Corte costituzionale ha infatti rimandato la questione al mittente. Scarnissimo il comunicato ufficiale emesso ieri sera (22 maggio) al termine dei lavori:
La Corte Costituzionale si è pronunciata […] restituendo gli atti ai giudici rimettenti per valutare la questione alla luce della sopravvenuta sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 3 novembre 2011 sulla stessa tematica.
Riassunto delle puntate precedenti. Tutto comincia in Austria, dove la fecondazione eterologa è parzialmente vietata: due coppie fanno ricorso alla Corte europea dei diritti dell’Uomo per poter accedere alla tecnica anche nel loro paese e nell’aprile 2010 la Corte si pronuncia in prima battuta a loro favore, dichiarando la violazione degli articoli 8 e 14 della Convenzione dei diritti dell’Uomo, sul diritto al rispetto della vita privata e familiare e sul divieto di discriminazione. La sentenza suscita comprensibili entusiasmi anche in Italia, tra gli oppositori della legge 40.
Nel giro di sei mesi a cavallo tra 2010 e 2011 tre coppie sterili, per le quali la fecondazione eterologa è l’unica tecnica possibile di pma, ricorrono ai tribunali di Firenze, Catania e Milano con la stessa richiesta delle coppie austriache. Tutti e tre i tribunali rimandano la questione alla Corte costituzionale, sollevando dubbi di illegittimità, irragionevolezza e discriminazione per l’articolo 4, comma 3 della legge 40, quello che vieta il ricorso all’eterologa, e sottolineando il precedente della sentenza europea. Intanto, però, in Europa cambiano le carte in tavola. L’Austria, fiancheggiata da Italia e Germania, si appella alla Corte di Strasburgo, che il 3 novembre 2011 emette una sentenza contraria a quella di primo grado: secondo la nuova sentenza, il divieto alla fecondazione eterologa non viola i diritti umani fondamentali ed è dunque un divieto che i singoli stati possono legittimamente porre.
Di fronte a questo quadro, la Corte italiana poteva percorrere diverse strade. «Poteva per esempio concentrarsi sul dubbio di costituzionalità della legge rispetto all’articolo 3 della Costituzione, quello che pone l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge», afferma Ileana Alesso, avvocato del foro di Milano, impegnata in vari processi sull’incostituzionalità della legge 40. «Il dubbio di discriminazione c’è, perché a certe coppie non viene concesso il ricorso all’unica tecnica possibile di pma che potrebbe risolvere la condizione di sterilità». Una situazione quasi assurda, perché è proprio la legge 40 a stabilire che è consentito il ricorso alla pma «al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi» (art.1 comma 1).
E invece, la Consulta ha scelto di rifarsi alla sentenza europea, chiedendo in pratica ai tribunali coinvolti di riformulare i termini del ricorso. Una procedura tecnica sicuramente corretta dal punto di vista giuridico, anche se l’impressione è che in qualche modo ci si sia voluti lavare le mani della faccenda. «Di certo comunque la partita non è chiusa, commenta Alesso, la sentenza lascia ampi margini di riesame». Che però richiederà tempo: almeno un altro anno o due prima che la questione si chiuda definitivamente.
Intanto la legge della discordia rimane in piedi, nonostante i colpi che le sono già stati assestati: nel 2009, un’altra sentenza della Corte Costituzionale aveva fatto cadere le restrizioni sul numero massimo di embrioni da produrre, l’obbligo del trasferimento di tutti gli embrioni creati e il divieto alla crioconservazione. Oggi, in pratica, è il medico (insieme alla coppia) a decidere quanti ovociti è meglio fecondare e quanti embrioni è opportuno trasferire, tra quelli prodotti. Caduto anche il divieto di diagnosi preimpianto sugli embrioni per escludere malattie genetiche (parliamo sempre di coppie infertili, per quelle fertili questa possibilità non c’è ancora, anche se alcune sentenze di tribunali civili vanno in questa direzione).
Grazie a queste modifiche, qualche aspirante genitore ha potuto tirare un sospiro di sollievo, ma per le coppie che hanno la sola possibilità dell’eterologa il travaglio continua. Dovremmo pensarci più spesso e con più solidarietà, a queste coppie (2000 nel 2011, secondo i dati dell’Osservatorio del turismo procreativo): persone mortificate nel loro desiderio di un figlio, di un certo percorso di genitorialità, che si vedono costrette a rifare i bagagli per l’estero – con tutti i disagi e le difficoltà anche economiche, che questo comporta – per poter dare al loro desiderio almeno una speranza di compiersi. E dovrebbero pensarci più spesso i legislatori, come ricorda oggi il giurista Stefano Rodotà sulle pagine di Repubblica:
La Corte ha deciso di non decidere, ma di avviare una fase di ulteriore riflessione […]. Ma un Parlamento degno di questo nome, consapevole della continua delegittimazione che gli deriva dal fatto che una sua legge obbliga le persone ad aggirarla per far valere i propri diritti, dovrebbe esso stesso porre fine a questo stato delle cosa. Che mortifica le persone e fa rinascere la cittadinanza “censitaria” perché solo chi è fornito di adeguate risorse finanziare può recarsi all’estero e rendere effettivo un proprio diritto.
Immagine di Sexy Eggs / Flickr