CULTURA

La fisica incontra la biologia, ovvero dal lavoro sporco al calcolo matematico

CULTURA- Cosa succede quando un fisico sconfina nei territori tormentati della biologia? La sfida è scoprire le leggi alla base dei sistemi viventi: dai batteri unicellulari, dalle uova transgeniche di moscerino, agli stormi di uccelli migratori; fino agli esperimenti avveniristici, in cui un’equipe di Princeton, coordinata dal William Bialek, dell’Istituto di genomica integrativa Lewis-Sigler all’Università di Princeton, negli Stati Uniti, ha creato una colonia di neuroni, adagiata su un nanochip che ne registra ogni palpito. Un’ibrido uomo/macchina.

Bill Bialek, siamo alla vigilia di una nuova era nella biologia? I suoi successi nell’applicare principi fisici a problemi biologici complessi sembra puntare in questa direzione…

Proprio come Red e Toby, fisica e biologia condividono una lunga storia di amore/odio. L’obiezione che i fisici fanno subito quando si parla di biologia è che la vita, quest’amalgama di carne, ossa e sostanze chimiche, è molto imprecisa, di per sé. Ci è  chiaro che processi biologici i più diversi, dalla regolazione dei geni al comportamento dei batteri, per funzionare correttamente richiedono una precisione di almeno il 10%. Dunque non sono per nulla imprecisi: se la concentrazione di una molecole è sbagliata in una parte su dieci, il processo si blocca. Ma c’è un altro aspetto, più innovativo. Possiamo capire molti aspetti della biologia in modo quantitativo usando approcci fisici a partire da principi primi. Meccanica statistica, massimizzazione dell’entropia, teoria dell’informazione congiurano per trasformare quello che sembrava lavoro sporco in un preciso problema matematico: e fare delle predizioni verificabili quantitativamente. Il nostro punto di vista si è capovolto. Quelli che una volta sembravano bizzarri accidenti dei sistemi viventi imperfetti, sono diventati i meccanismi specifici grazie ai quali quei sistemi viventi operano ai limiti teorici delle loro capacità.

Che cosa ha portato a questo cambio di paradigma?

Siamo in una nuova era scientifica, dove abbondano i dati e nuovi, ambiziosi esperimenti, che potevamo solo sognare dieci anni fa, sono finalmente alla nostra portata. Per la prima volta, possiamo seguire il comportamento simultaneo di centinaia di neuroni, di uccelli in uno stormo, di cellule dentro un uovo del moscerino della frutta. Abbiamo a disposizione tecniche di DNA ricombinante che possono accendere o spegnere un gene alla volta, aggiungendo una tinta fosforescente al gene attivato, per poterlo guardare in tempo reale. Le foto sono strabilianti! Questi miracoli sperimentali ci danno la possibilità inattesa di mettere alla prova teorie che un tempo erano considerate semplice metafore o allegorie, nel migliore dei casi. Alcune delle quali si sono dimostrate corrette.

Che tipo di idee possono essere traghettate con successo dalla fisica alla biologia?

Erano gli anni Ottanta quando John Hopfield propose che le reti di neuroni nel cervello possono essere modellate sotto forma di magneti, o vetri di spin. Hopfield si era ispirato ai vetri di spin come modello per la memoria associativa. Questa idea è stata la nostra guida nell’attaccare il problema del codice neurale, ma nessuno in realtà l’ha mai presa alla lettera. Uno dei motivi per cui il modello di Hopfield è rimasto una metafora è che le sue predizioni sono valide solamente quando possiamo confrontarle con un numero grandissimo di neuroni, il cosiddetto “limite termodinamico.” Ma la maggior parte di quello che sappiamo sul cervello è stato capito studiando soltanto un neurone alla volta. Col senno di poi, è un vero trionfo delle neuroscienze il fatto che siamo riusciti comunque a capirci qualcosa, quando ci sono cento miliardi di neuroni nel cervello – e tutti sono attivi! Misurare solo qualche neurone è l’opposto del limite termodinamico… ma negli ultimi anni i nostri colleghi sperimentali hanno fatto passi da gigante. Al giorno d’oggi possiamo usare micro-elettrodi talmente piccoli da registrare tutti i singoli neuroni in una certa area, fino a circa duecento neuroni in totale: ancora non abbastanza, ma siamo decisamente molto più vicino al limite termodinamico.

Di che esperimenti si tratta?

Prendiamo una fettina di retina, contenente duecento neuroni, e la mettiamo su una piastra dove è fissata la matrice di micro-elettrodi. Questo piccolo pezzo di retina rappresenta un pixel del tuo campo visivo – nel caso tu sia una salamandra! I neuroni sul piattino si attivano tutto il tempo, emettendo potenziali d’azione, o spike. Da molti anni sono interessato al calcolo delle correlazioni tra gli spike dei diversi neuroni, ovvero quante volte due neuroni si attivano insieme, o tre neuroni, e così via. Mi sono basato su un modello della fisica statistica, chiamato il principio della massima entropia. Ovviamente, ispirato anch’esso al modello di Hopfield. All’inizio, volevo misurare la differenza tra il mio semplice modello e i neuroni veri. Ma più cercavamo delle differenze, più ci rendevamo conto che non ce n’era neanche una. Non ci è restato che concludere, con nostra enorme sorpresa, che la meccanica statistica, che modella i neuroni come piccoli magneti, predice accuratamente le correlazioni tra i neuroni nella retina di salamandra. Ci stiamo avvicinando sempre più a formulare quella che i fisici chiamerebbero una vera “teoria”!

Il leit motif delle vostre ricerche è il concetto di criticalità auto-organizzata, che sembra essere ubiqua nei sistemi viventi.

In maniera del tutto sorprendente, la stessa massimizzazione dell’entropia che ho preso a prestito dalla fisica statistica si può applicare a fenomeni della vita, i più diversi. Oltre all’attività dei neuroni nella retina, mi sono occupato recentemente dei movimenti fluidi degli uccelli che volano in uno stormo. L’ingrediente cruciale è la dinamica collettiva di un gran numero di singole unità: neuroni, uccelli o quant’altro. L’insieme è qualitativamente diverso dalla somma delle singole unità.

L’esempio più semplice di sistema al punto critico è l’acqua che bolle in pentola. Quando la temperatura dell’acqua raggiunge i cento gradi, iniziano a formarsi delle bolle di vapore: le due fasi liquida e gassosa convivono. Sistemi come l’acqua alla transizione di fase si dicono in gergo fisico al “punto critic”. Una caratteristica di sistemi al punto critico è che si propagano segnali a lunga distanza, e che il sistema è invariante di scala, cioè le bolle che si formano alla scala del micron hanno le stesse caratteristiche delle bolle grandi un centimetro, e oltre. In genere, per portare un sistema fisico al punto critico è necessario un fine tuning dei parametri, per esempio che la temperatura sia ai cento gradi.

Una versione di questa idea si aggira da decenni tra la fisica e la biologia: la criticalità auto-organizzata. L’idea è nata non molto distante da qui. Per Bak era al Laboratorio Nazionale di Brookhaven quando scrisse il suo articolo seminale e il suo libro intitolato “How nature works.

Negli esseri viventi, il comportamento di punto critico sarebbe un attrattore, ovvero questi sistemi si auto-organizzano in modo da raggiungere il punto critico e starci, senza bisogno del fine tuning di alcun parametro: una proprietà molto più resistente alle ingerenze esterne.

Purtroppo per molti anni quest’idea, per quanto meravigliosa e stimolante, non ebbe molto successo. Il motivo è che fino a poco tempo fa non ci potevamo avvicinare sperimentalmente al grado di precisione necessario per metterla alla prova. Così rimase soltanto una curiosità, più una metafora che una vera e propria teoria. L’idea della criticalità auto-organizzata sparì in silenzio, non perché qualcuno la testò e scoprì che era sbagliata, ma piuttosto perché non era mai stato chiaro quale quantità precisa avremmo dovuto stimare dai dati. Quello che è cambiato adesso è che finalmente abbiamo capito cosa ci serve per testare la teoria. E abbiamo scoperto che… funziona! Ora ci chiediamo: siamo proprio ad un punto critico nello spazio dei parametri, o soltanto molto vicini ad esso?

Torniamo per un momento al dilemma fisici/biologi. Dopo la scelta iniziale di studiare fisica, che cosa Le ha fatto cambiare idea e passare alla biologia?

In realtà sapevo che avrei studiato gli esseri viventi fin dall’inizio. Assistevo ai seminari di fisica a Berkeley e mi innamoravo della matematica e del formalismo che lo speaker di turno utilizzava per attaccare un qualche problema fisico. Mi annoiavo presto, però, pensando tra me e me: “Che voglia ho adesso di andare a casa e rifarmi il calcolo che ho appena visto?” Credo di essere stato affascinato non tanto dal problema specifico che si discuteva di volta in volta, quanto dall’approccio di problem solving e ai metodi usati per risolvere quei problemi. Allo stesso tempo, assistevo ai seminari di biologia e restavo scioccato dalla bellezza mozzafiato delle domande che venivano poste e dall’ambizioso obiettivo di spiegare la vita. Ma la complicazione dei dettagli e i metodi ad hoc, la mancanza di principi generali mi lasciavano sempre insoddisfatto. Possiamo dire che ho preso il meglio di entrambi i mondi! O, forse, che li ho equivocati entrambi…

Finora, la relazione tra fisica e biologia, di cui ci hai parlato, scorre senza dubbio in un senso, dalla prima alla seconda. Ma è un rapporto reciproco?

Credo che la biologia contribuisca sostanzialmente alla fisica, ma in modo molto diverso. Ci aiuta a capire quali sono le domande significative e ci porta a sviluppare in modo più sofisticato i metodi fisici che poi vogliamo applicare. Ti farò un esempio che riguarda la struttura tridimensionale delle proteine. Quando abbiamo un modello statistico con molti parametri (come quello che descrive il protein folding), i fisici di solito adorano studiare il modello in due limiti – e sempre gli stessi: quando i parametri hanno valori molto grandi, oppure molto piccoli. Al contrario, siccome vogliamo applicare questo modello alla biologia, dobbiamo studiarlo in un regime completamente diverso. Il modello descrive protein folding soltanto per valori intermedi dei parametri, e ci mostra delle nuove proprietà che non avremmo mai immaginato se lo avessimo studiato come fisici. La biologia ci dice dove andare a cercare la risposta – in un posto dove i fisici non si avventurerebbero mai!

Un altro esempio dell’interazione tra fisica e biologia si può scoprire direttamente su arXiv.org, l’archivio che mette online open source tutti gli articoli di fisica e matematica. La sezione dell’archivio che una volta si chiamava “Meccanica statistica e sistemi disordinati” ora si chiama “Sistemi disordinati e reti neurali.” Questo cambiamento è significativo, perché ci suggerisce che la fisica statistica e lo studio delle reti neurali e del cervello sono in realtà lo stesso campo di ricerca: progressi nell’uno sono direttamente applicabili all’altro e viceversa!

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