JEKYLL – Con un asciutto comunicato stampa, l’INFN ha posto fine alla questione dei neutrini superluminari. In modo elegante, Opera viene nominato assieme a BOREXINO, ICARUS, LVD come uno degli esperimenti che ha permesso di “controllare” la velocità delle particelle.
Personalmente, nella lunga e contorta vicenda mediatica di Opera, una delle cose che più mi ha colpito (tra tunnel gelminiani, fisici in odore di Nobel, conferme, smentite, manuali di fisica da riscivere e presunte vendette di Einstein) sono state le dichiarazioni di Yves Declais, spokesperson dell’esperimento dal 2002 al 2008. Quando ormai, anche se non c’era ancora la conferma ufficiale, si era capito che la scoperta dei neutrini più veloci della luce era una bufala, Declais aveva dichiarato al Newsblog di Nature che “ci sono divisioni culturali tra italiani e nord europei, e molti conflitti personali che rendono difficile una discussione scientifica pacifica”.
Insomma, se di solito nell’immaginario collettivo il mondo delle collaborazioni scientifiche appare come un’oasi felice e illuminata, in cui scienziati di tutto il mondo sanno mettere da parte eventuali divergenze culturali o personali per l’avanzamento del progresso, Declais sembra tratteggiare invece una realtà diversa, in cui distanze tra popoli e problemi relazionali possono essere causa di catastrofi mediatiche e di fallimenti in lunghe e costose collaborazioni tra luminari. È davvero così? Lo abbiamo chiesto a due figure di spicco all’interno di Opera: Luca Stanco, Dirigente di Ricerca INFN, che collabora alla realizzazione di questo esperimento dal 1999 e Piero Monacelli, professore ordinario di Fisica sperimentale all’Università dell’Aquila.
“Parlare di distanze culturali è una cosa assolutamente idiota” taglia corto Luca Stanco “le nostre sono tutte collaborazioni internazionali. Dire che c’è un problema culturale è dire che non sappiamo fare il nostro lavoro”. È vero però, continua Stanco, che Opera è (stata?) una collaborazione problematica. Al di là delle difficoltà relazionali (“Opera è composta da molte persone spigolose tra cui mi ci metto anch’io, e messi assieme non siamo riusciti a creare un gruppo”) c’è un problema contingente: i fisici dei neutrini, a differenza di scienziati specializzati in altri ambiti, non sono abituati a lavorare in grosse collaborazioni. Comportamenti, dinamiche, modalità di collaborazione sono completamente diverse se si lavora in un gruppo da 10, da 100 o da 500 persone. E per lavorare in gruppi grossi servono delle capacità relazionali, delle competenze diverse, che si acquisiscono anche con l’esperienza. Una figura chiave, in questo senso è lo spokesperson: “Declais lavorava moltissimo, dedicava poco tempo a cercare di valorizzare i lavori dei singoli. Ereditato invece era bravissimo a fare public relations, ma solo verso l’esterno”. Alla domanda se la rotazione degli spokesperson sia stata una cosa naturale Stanco risponde “Non c’è niente di naturale ad Opera. Per l’incarico di spokesperson dopo Declais c’è stata una lotta all’ultimo sangue”. Stanco sottolinea anche un altro problema all’interno dell’esperimento: oltre ai conflitti personali c’è un conflitto generazionale. Opera non ha una struttura piramidale con a capo pochi vecchi saggi e un graduale allargarsi mano a mano che si scende. La struttura “sociale” dell’esperimento è a clessidra: ci sono un gran numero di “vecchi” e una grande quantità di giovani, senza che ci siano o quasi figure intermedie, che facciano da cuscinetto, motivo per cui il confronto e la collaborazione tra diverse generazioni sono stati problematici. “Mentre i giovani non avevano alcuna voce in capitolo i vecchi sproloquiavano” conclude Stanco.
Anche per Monacelli, presunte distanze culturali non c’entrano nulla. “Non ero a conoscenza di questa specifica dichiarazione di Declais, però non mi stupisce. Yves è sempre stato un po’ polemico, semplicemente adesso ha focalizzato questo suo atteggiamento critico sull’aspetto culturale”. È vero che a un certo punto i gruppi italiani si sono allineati su certe posizioni comuni, ma non per motivi geografici, tanto più che sulle nostre posizioni c’era anche il gruppo di Amburgo (ben più a nord di Lione). Il fatto è che i gruppi italiani, essendo forse tra i più coinvolti nell’esperimento, avevano tutto l’interesse a rispettare scrupolosamente una procedura scientifica per il controllo dei dati che di solito è universalmente accettata. “Quello che per i francesi è stato un incidente di percorso per noi è stato un disastro” conclude amaramente Monacelli. Ironia della sorte, il “baco” si trovava proprio nel lavoro del gruppo di Lione. Il connettore, che congiungeva una fibra ottica ad un circuito che doveva trasformare il segnale da ottico ad elettronico, si è leggermente scollegato. Ma questo ha semplicemente indebolito il segnale; se il circuito d’ingresso fosse stato progettato bene, ciò non avrebbe probabilmente comportato problemi. “Il circuito d’ingresso – spiega Monacelli – era chiaramente progettato male. Purtroppo aveva una risposta temporale che dipendeva dall’ampiezza del segnale. Il segnale a un certo punto è diminuito di ampiezza e il risultato è che abbiamo avuto uno shift di 70 nanosecondi sull’uscita e questo non doveva succedere”. Insomma, il circuito doveva dire semplicemente se il segnale passava o no (una sorta di interruttore insomma) indipendentemente dalla sua quantità, ma non era stato progettato così e ciò ha portato all’errore che è stato alla base della scorretta misurazione della velocità dei neutrini. La fibra ottica, tra l’altro, era sulla lista degli elementi da controllare prima della pubblicazione. “Nelle nostre collaborazioni quando c’è un risultato eclatante questo va ricontrollato in maniera indipendente anche da altri gruppi, chi vuole deve avere la possibilità di mettere le mani sui dati e di fare le misure che ritiene necessarie… e questo di fatto ci è stato negato”.
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Un estratto dell’intervista a Luca Stanco:
Un estratto dell’intervista a Piero Monacelli:
Crediti foto: Astri e Particelle