AMBIENTECOSTUME E SOCIETÀSALUTE

Ogm e ricerca pubblica: “Sbagliato distruggere i campi sperimentali”

CRONACA – “Questo Ministero ha provveduto ancora una volta ad invitare l’Università degli Studi della Tuscia a procedere all’immediata dismissione del sito di sperimentazione”. Firmato Corrado Clini, Ministro dell’Ambiente, destinatario Mario Capanna, presidente della Fondazione Diritti Genetici. La lettera, dei primi di giugno, decretava l’obbligo, da parte dell’ateneo viterbese, di distruggere i campi sperimentali di ciliegi, olivi e kiwi Ogm su cui lavorava dalla fine degli anni Novanta l’agronomo e biotecnologo Eddo Rugini. L’ennesima puntata della lunga diatriba sull’annosa questione Ogm sembra aver chiarito quali gruppi, in Italia, detengano il potere decisionale sulle biotecnologie agrarie, e pare che i ricercatori abbiano ben poca voce in capitolo.

Difficile, altrimenti, spiegare la levata di scudi di varie comunità scientifiche italiane (al plurale, perché è forse bene ricordare che non esiste una sola comunità scientifica), con tanto di diffusione di appelli a mezzo blog e reti sociali contro la distruzione dei campi Ogm. Niente da fare: il 12 giugno, come previsto, sono iniziate le distruzioni dei campi, con l’abituale scia del combattimento all’arma verde tra i favorevoli e i contrari agli organismi geneticamente modificati: dai temi più filosofici, come i concetti di naturale e artificiale, a quelli più politici, come il potere delle multinazionali agrarie e i danni alle economie agricole locali.

A voler cercare il lato positivo di tutta la vicenda, ci si potrebbe rallegrare che, ancora una volta, una decisione drastica di un ministero dia modo ai cittadini di dibattere sul un argomento d’attualità scientifica; a essere realisti, invece, ci si può chiedere quali siano le motivazioni alla base di una decisione non supportata da insuccessi tecnici, ma volta ad alleviare piuttosto i mal di pancia dei fondambientalisti. “La distruzione dei campi, oltre a mandare un messaggio molto chiaro tanti ricercatori italiani – ‘andate altrove, qui non è aria per voi’ – non consente la continuazione di ricerche, la verifica dei risultati di anni di sperimentazioni, e impedisce proprio quelle analisi di impatto ambientale che tanti contrari agli Ogm pretendono”, afferma Federico Baglioni, studente di biotecnologie molecolari all’Università di Milano, tra i più attivi nella lotta telematica contro la distruzione dei campi (il blog linkato sopra è opera sua).

“I lavori di Rugini, iniziati nel 1982, sono stati trasferiti in campo aperto dal 1998, data in cui l’Università della Tuscia ha ottenuto l’autorizzazione all’uso dei terreni: ora, queste autorizzazioni durano dieci anni, dopodiché occorre rinnovarle. Il problema è che nel 2008 era già entrata in vigore la moratoria sugli Ogm, e la proroga è stata prima rifiutata e poi, dopo l’invito a ripensarci, la richiesta è caduta nel silenzio: nulla a che vedere, quindi, con problematiche di tipo salutare-ambientale, né con inadempienze dei protocolli di ricerca che, al contrario, sono sempre stati seguiti”. Nel 2001, infatti, un provvedimento firmato dall’allora ministro dell’Ambiente Pecoraro Scanio bloccò tutte le sperimentazioni in campo agrobiotecnologico, per cui quei campi sperimentali diventarono retroattivamente illegali (qui Wikipedia riporta tutto l’iter legislativo della questione Ogm in Italia e in Europa). È a questa motivazione che si è appellata la Fondazione.

Eppure, le cose sono andate diversamente in una situazione analoga nel Regno Unito: nel maggio scorso, di fronte all’intenzione di un gruppo di attivisti di distruggere dei campi sperimentali in Inghilterra, una rete di scienziati del centro biotecnologico di ricerca pubblica Rothamsted Research ha diffuso un appello alla difesa delle coltivazioni, generando un dibattito che ha finito per giovare alle ragioni dei ricercatori, e scongiurando le distruzioni. “Gli ambientalisti italiani si appellano al rischio di contaminazione per le colture circostanti, ma questo pericolo non è realistico perché la maggior parte di quelle piante sono sterili o non fioriscono, e le altre sono minuziosamente controllate secondo i protocolli; anzi semmai l’assenza, in questi dieci anni, del minimo problema, sta confermando che le piante Ogm non sono pericolose in quanto tali, né costituiscono una minaccia per le colture tradizionali, come spesso si vuole far credere”, continua Baglioni.

Su un altro blog, i ricercatori dell’ateneo viterbese si dicono disponibili a fornire informazioni e dettagli a chiunque possa essere interessato: almeno da questo punto di vista, contrariamente al passato, sembra quindi che la comunità biotech, in questo simile ad altre comunità scientifiche, abbia smesso di limitarsi a guardare dall’alto in basso con disprezzo la ‘volgar plebe’ dei non scientificamente educati, e abbia invece compreso che, per portare avanti un’idea, non è sufficiente essere convinti della sua validità, ma occorra comunicare, dibattere, prendendo in considerazione ambiti di riflessione che esulino dal puro contenuto scientifico.

C’è poi la questione dello spettro delle multinazionali. Per molti, Ogm uguale brevetto, uguale multinazionale, uguale enormi mezzi finanziari, uguale sopruso e danno per i contadini locali e, quindi, per la comunità: si scrive Monsanto, si legge catastrofe. “I semi Ogm, dopo il primo raccolto vanno ricomprati perché perdono in resa, ma questo avviene normalmente nell’agricoltura convenzionale e perfino biologica: in genere, il contadino non riutilizza i semi del raccolto precedente, ma preferisce ricomprarli (perché conviene), da aziende multinazionali che già la fanno da padrone nell’agricoltura, e senza che ciò desti particolare sdegno nei cittadini”, commenta Baglioni.

“La ricerca pubblica italiana è un’alternativa e ha già disponibili, infatti, tantissime tecnologie che sarebbero di estrema utilità per la nostra agricoltura; tecnologie che, dato il loro piccolo mercato, a una multinazionale straniera non interesserebbero. Il motivo per cui queste tecnologie non hanno avuto ancora successo va da ricercarsi in una regolamentazione  burocratica infinita e molto onerosa, che taglia le gambe ai progetti pubblici, e che risulta in un monopolio di fatto delle multinazionali”

E se si evitasse proprio di utilizzarli? “Improbabile, dal momento che ne importiamo grandi quantità dall’estero: in Italia, infatti, si impedisce la loro coltivazione e produzione, ma non l’importazione, in quanto sarebbe contrario alla normativa europea. Proprio dai mangimi Ogm, che paghiamo a prezzi maggiori, ricaviamo prodotti di alta qualità, anche tipici, di cui ci facciamo vanto e che poi, erroneamente, definiamo Ogm-free. Non sarebbe allora più sensato – conclude Baglioni – fabbricarceli da soli, specificamente per i nostri territori ed evitare, allo stesso tempo, fughe di biotecnologi proprio versoquei paesi dalle politiche più liberali che ci vendono gli Ogm? I mezzi li abbiamo, i cervelli pure. Ora manca solo la mentalità adatta”.

Crediti immagine: DeeJayTee23

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