AMBIENTE – Mentre continua, a colpi di articoli scientifici, il dibattito sulle conseguenze del cambio climatico (si veda qui e qui), noi facciamo la nostra parte dando un colpo al cerchio e uno alla botte. Vi presentiamo quindi due articoli pubblicati negli ultimi tempi: uno, un po’ datato ma ancora attuale (della metà di luglio), sui benefici che l’agricoltura di alcuni paesi in via di sviluppo (Pvs) trarrebbe dalla modifica delle condizioni climatiche; l’altro, molto più recente, sulle conseguenze del cambio climatico sull’incidenza del rischio di tumori alla pelle. E non solo, perché anche l’agricoltura…
Il primo studio, condotto da ricercatori di Stanford University, Banca mondiale e Purdue University, e apparso sulla Review of Developmental Economics, ha come protagonista l’agricoltura della Tanzania. Il clima più caldo e secco di alcune regioni del mondo in determinati periodi potrebbe colpirne le coltivazioni, e ciò che provocherebbe un aumento dei prezzi del cereale. Il paese del Chilimangiaro potrebbe trarre vantaggio anche da questo aumento. Lo studio usa dati economici, climatici e agricoli e modelli computazionali per prevedere il verificarsi di anni particolarmente secchi nei prossimi nove decenni in Tanzania e nei suoi principali partner commerciali, in risposta al riscaldamento globale.
Si è visto che, negli anni in cui Stati Uniti, India e Cina saranno caratterizzate da clima secco – ben il 96% del tempo totale -, la Tanzania godrà di un clima piuttosto umido e di condizioni favorevoli alla crescita. Viceversa, quando il clima tanzaniano sarà arido, Stati Uniti, Canada, Cina e Russia avrano condizioni di umidità favorevoli ai raccolti. Un mix di partner commerciali adeguati permetterebbe quindi a tutti questi paesi di premunirsi contro condizioni di aridità prolungata, e ai Pvs come la Tanzania di aumentare gli introiti derivanti dalle esportazioni.
“Questo studio sottolinea come le politiche di governo possano influire sull’impatto sull’ambiente del sistema climatico”, commenta Noah Diffenbaugh, coautore dello studio, scienziato ambientale a Stanford. “La Tanzania è un caso molto interessante, poiché ha il potenziale per beneficiare del cambio climatico, sempre che si rivelino corrette le predizioni del modello climatico riguardo a una diminuzione della siccità in Africa orientale, e che le politiche commerciali siano progettate in modo da trarre vantaggi da queste nuove opportunità”.
Anche il secondo articolo, pubblicato su Science, viene da una ricerca statunitense: ricercatori della Harvard University, guidati dal chimico atmosferico James G. Anderson, avvertono contro il rischio che il cambio climatico può avere sulla salute pubblica. Secondo questo studio, una connessione appena scoperta tra cambio climatico e riduzione dello strato di ozono al di sopra degli Stati Uniti potrebbe lasciar passare una maggiore quantità di radiazioni ultraviolette dannose che, raggiunta la superficie della Terra, aumenterebbero il rischio di cancro alla pelle.
Nel sistema descritto nello studio, del vapore acqueo introdotto nella stratosfera da potenti temporali converte forme stabili di cloro e bromo in radicali liberi, capaci di trasformare le molecole di ozono in ossigeno. Il problema è che sembra che questi temporali stiano aumentando d’intensità e frequenza, a causa del mutare del clima. “È chiaro che l’aumento di anidride carbonica nell’atmosfera sta velocizzando il cambio, e questo a sua volta influisce su frequenza e intensità dei temporali”, commenta Anderson.
“C’è stato un gran lavoro da parte della comunità medica per definire la relazione tra il fattore di riduzione dell’ozono e l’aumento di tumori alla pelle – continua il chimico -, e la risposta è chiara: se si moltiplica il fattore di abbassamento dalla protezione dall’ozono per tre, si ha l’aumento dell’incidenza di cancro alla pelle”.
Ma non sono solo gli esseri umani a doversi preoccupare degli effetti di un aumento della radiazione ultravioletta. Molte colture, conclude Anderson, e in particolare gli alimenti base destinati al consumo umano, come grano, germogli di soia e mais, potrebbero incorrere in danni al Dna. Se i danni fossero considerevoli, probablimente anche una politica agricola economicamente oculata non servirebbe a molto.
Crediti immagine: Martin Lopatka