JEKYLL – Nessuna rivoluzione in vista nel mondo del giornalismo. La rivoluzione è già in atto, qui e ora. Non c’è più tempo per interrogarsi sulla sua portata, né margine di manovra per invertire la rotta. Chi vuole sopravvivere in questo nuovo ecosistema digitale deve accettarlo come un dato di fatto e trovare il modo di adattarvisi.
È su queste premesse che si fonda il rapporto della Columbia Journalism School “Post-Industrial Journalism: Adapting to the Present”, redatto da C.W. Anderson, Emily Bell e Clay Shirky. Un manifesto, più che un vero e proprio report, basato su interviste qualitative e su una serie di conferenze svoltesi nella scuola ad aprile 2012, nonché sulle ricerche e le esperienze professionali degli autori. L’obiettivo dei tre studiosi è fornire raccomandazioni e suggerimenti utili a giornalisti e organi di informazione per superare lo spaesamento e riuscire a sfruttare gli elementi di novità a proprio vantaggio.
Pubblicato lo scorso 27 novembre, il documento non è certo passato inosservato, ricevendo un’ampia eco in dibattiti, recensioni e commenti, specialmente tra gli addetti ai lavori. In Italia ne hanno scritto Luca De Biase, Giuseppe Granieri, Andrea Iannuzzi, Sergio Maistrello, Nico Pitrelli, Pier Luca Santoro, Mario Tedeschini Lalli. Mentre nel contesto internazionale sono intervenuti, tra gli altri, Mathew Ingram e Jeff Sonderman.
Tanta attenzione per questo report è sì, almeno in parte, dovuta all’importanza dell’istituzione che lo ha prodotto – una delle più prestigiose scuole di giornalismo al mondo – e al peso intellettuale dei suoi estensori – esperti di spicco nel campo dell’editoria, dell’informazione e della cultura digitale. Ma non è tutto. Il valore di questa pubblicazione risiede in primo luogo nei contenuti e nelle analisi che propone: nel ridisegnare i confini del mestiere di reporter e nel ridefinire il ruolo della stampa nella società della conoscenza.
Il dato di partenza è che l’industria dell’informazione è ormai soltanto un ricordo del passato. Non esiste più una filiera produttiva lineare, che parta dall’editore e si concluda con il consumatore, né un set di strumenti e di competenze a disposizione di una categoria ristretta, che tagli fuori chi non ne sia dotato dal processo di produzione. La linearità mal si concilia con forum, blog e social network, la cui capacità di pubblicare e discutere notizie in tempo reale è superiore a quella di tutti i media del pianeta messi insieme.
Sperare in un ritorno alla cosiddetta “età dell’oro” è un’utopia, sostengono gli autori del report. Non si intravede alcun indizio per un’inversione di tendenza. Anzi, l’attuale trend, nei prossimi anni, sarà ulteriormente accentuato. Piccoli correttivi non sono sufficienti a far fronte alle mutate condizioni. Bisogna raccogliere la sfida imposta dalle innovazioni tecnologiche e dalle trasformazioni in atto, per reinventarsi da capo una funzione e un’utilità sociale.
In un passo particolarmente significativo del rapporto si legge che
l’erosione del vecchio modo di procedere va di pari passo con un incremento di nuove opportunità e requisiti per ottenere un risultato giornalisticamente rilevante. Il giornalista non è stato rimpiazzato, ma soltanto riposizionato, collocato un po’ più in alto nella catena editoriale, dalla produzione delle osservazioni iniziali a un ruolo che mette in primo piano la verifica e l’interpretazione, rendendo comprensibili i flussi di testo, audio, foto e video prodotti dal pubblico.
In altre parole, il giornalista post-industriale deve saper filtrare e contestualizzare dati e informazioni, piuttosto che procurarseli in prima persona, potendo contare, per quanto riguarda la fase di raccolta, sulle sue reti di relazioni reali e virtuali, e sull’impiego di macchine e algoritmi. Ciò gli permette di liberare risorse da concentrare nelle sue funzioni principali: costruire sintesi significative e originali a partire da input molteplici ed eterogenei, ed elaborare analisi approfondite all’interno del suo specifico settore di competenza. Compiti per svolgere i quali è auspicabile che possegga al tempo stesso sia una cultura ad ampio raggio sia una specializzazione in un qualche ambito. Nel suo bagaglio di conoscenze, inoltre, non dovrebbe mancare una certa disinvoltura nel maneggiare dati e statistiche, nell’analizzare l’audience e nel comprendere le metriche.
Quelle qui sintetizzate sono soltanto alcune delle riflessioni proposte dagli autori, forse le più interessanti e rappresentative a giudizio chi scrive questa recensione. Ma il rapporto della Columbia Journalism School è ricco di ulteriori spunti e di esempi concreti, e merita senz’altro una lettura integrale da parte di giornalisti, studiosi e appassionati della materia. Il suo maggior pregio sta nella visione lucida delle trasformazioni in atto e nella spregiudicatezza con cui gli autori avanzano previsioni non vaghe e astratte, ma precise e verificabili, sul futuro del giornalismo.