La seconda parte di questo articolo, con un’intervista a Fabio Turone, è anch’essa disponibile su OggiScienza
JEKYLL – Il giornalismo scientifico non è solo avere una bella penna o due dottorati di ricerca. Risale a pochi giorni fa la pubblicazione delle motivazioni in base alle quali i membri della Commissione Grandi Rischi sono stati condannati a sei anni di reclusione: un fatto che mostra come la comunicazione della scienza sia a volte un campo delicato, complesso. Da cui, forse, possono persino dipendere delle vite.
Al giornalista scientifico non è richiesta soltanto la capacità di comprendere concetti formalizzati nel linguaggio della scienza. Sono necessarie anche virtù di tutt’altro genere. L’indipendenza di pensiero, per esempio. Ma, in questo senso, qual è la situazione in Italia? Come lavora, davvero, chi si trova a scrivere di scienza ogni giorno? Per scoprirlo lo abbiamo chiesto a due esperti: Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, Mente e Cervello, National Geographic Italia e Fabio Turone, presidente di SWIM (Science Writers in Italy) e membro del board della EUSJA (European Union of Science Journalists’ Association).
I giornalisti italiani spesso non godono di ottima fama, e quelli scientifici non fanno eccezione. Le accuse che gli vengono rivolte più di frequente sono di essere servi del potere, incapaci di esprimere un giudizio proprio, o addirittura schiavi dei conflitti di interesse. Cattaneo, secondo lei quanto sono indipendenti, in media, i giornalisti scientifici italiani?
Relativamente poco. Così come lo sono tutti i giornalisti scientifici, perché dipendono dalla mediazione dello scienziato tra la sua attività professionale e la capacità di esprimersi in un linguaggio adatto – quanto meno – al giornalismo scientifico. È evidente che un giornalista non può essere esperto così come lo è una persona che lavora in un settore molto ristretto della ricerca accademica. Possiamo essere giornalisti medici, o persino medici di formazione, ma non per forza avremo seguito la ricerca sul diabete degli ultimi vent’anni. Il livello di professionalità con cui i giornalisti valutano le informazioni deve allora prevedere un rapporto fiduciario. Qui però si crea un rischio: ci sono stati casi, anche recenti, in questo questo rapporto è stato sfruttato dagli scienziati. Penso allo studio sugli OGM di Séralini, in cui il gruppo di ricerca ha manipolato i dati e imposto restrizioni pesantissime ai giornalisti che chiedevano informazioni.
Ci sono però anche giornalisti scientifici che rivendicano quasi con orgoglio di essere amici dei ricercatori. Ma si può fare un buon lavoro, quando si è così vicini alla scienza? Non serve un certo distacco per giudicare?
Io ho senz’altro qualche scienziato di cui mi posso dire amico, ma questo non significa che debba bermi – dal punto di vista professionale – tutto quello che mi dice. C’è una discreta differenza. Sicuramente la chiarezza dei ruoli è qualcosa di auspicabile, come in tutti i rapporti. Lo è fra giornalista e politico, lo è in tutte le situazioni che richiedono un certo tipo di professionalità. Da questo punto di vista è probabile che in Italia il numero di conflitti di interesse sia superiore a quanto possiamo immaginare, perché questo tipo di problema non si innesca solo con gli scienziati.
Lei ritiene credibile un giornalista che si dichiara amico di un politico e poi lo intervista?
No, francamente no. Anche perché poi con la politica la questione diventa ancora più complessa. Il giornalismo politico, in particolare, in Italia è schierato e nelle testate c’è pochissima indipendenza. Il che significa che la politica, l’economia e i giornali finiscono per essere intrecciati in maniera preoccupante. Gli scienziati però hanno meno importanza e meno impatto sul mondo editoriale, per cui il rapporto con i giornalisti è diverso. D’altra parte i ricercatori hanno anche un interesse minore a creare frodi o casi di cattiva informazione di quanto ne abbiano, per esempio, gli stessi politici. Certo può succedere. Ma il buon giornalista, anche se ha un’informazione da uno scienziato “amico”, la deve verificare con altri ricercatori dello stesso campo.
Un altro caso interessante c’è stato con la sentenza di condanna della Commissione Grandi Rischi, all’Aquila, lo scorso ottobre. Alcuni giornalisti scientifici hanno pensato di sottoscrivere una petizione in difesa degli imputati. Le sembra un’idea accettabile, o è invece il segno di un rapporto poco sano con gli scienziati?
Che i giornalisti scientifici abbiano deciso di fare una petizione non mi sembra così incredibile. D’altra parte sono stati gli unici a non essere interpellati dai giornali, come se chi si occupa di scienza debba passare in secondo piano quando c’è una questione giudiziaria. La vicenda poi è finita in mano ai giornalisti di cronaca che l’hanno commentata in base alle loro posizioni politiche, pur non avendo spesso neppure la formazione adatta per leggere gli atti del processo, pieni di passaggi delicati dal punto di vista scientifico. Ed è una considerazione amara, purtroppo, visto che la sentenza – comunque la si pensi – è molto, molto delicata.
E la petizione?
Una petizione, come dire, alla fine ha sempre due facce. Nel momento in cui un tribunale emette una sentenza mi sembra abbastanza fine a sé stessa e nemmeno troppo utile al dibattito. Firmarla vuol dire scontrarsi muro contro muro, mentre io preferisco che si cerchi di far valere le proprie opinioni – perché di opinioni si tratta – con degli argomenti, piuttosto che con una firma in calce a una lettera che nemmeno hai scritto di persona.
Ma se un politico fosse stato condannato e dei giornalisti avessero firmato una petizione in sua difesa, non ci sarebbe stata una polemica enorme sulla loro indipendenza?
Direi di sì, decisamente sì. È una cosa non molto ortodossa, ma non mi sconvolge più di tanto. Sulla sentenza dell’Aquila ci sono stati degli schieramenti che si sono confrontati anche in maniera forte, come del resto ho fatto anch’io sul mio blog, ma ogni posizione dovrebbe essere presa sulla base di considerazioni indipendenti.
Le è piaciuto il modo in cui ha reagito la comunità dei giornalisti scientifici dopo la sentenza?
Da quel che conosco, mi sembra ci sia stata una reazione abbastanza eterogenea. Non ho notato schieramenti né da una parte né dall’altra, ma posizioni molto articolate. Ho visto commentare la sentenza con argomentazioni molto interessanti, distanti da quelle ideologiche che si sono viste quasi ovunque. Significa che in Italia sta crescendo un bel gruppo di giornalisti scientifici, abituati a valutare le cose con obiettività. Questo, devo dire, mi ha fatto molto piacere.
Tornando invece ai conflitti di interesse: quanto incidono, da un punto di vista economico, su un giornalista scientifico? Quanto ne influenzano il lavoro?
Questo dipende moltissimo. Purtroppo nei confronti del giornalismo scientifico non c’è particolare considerazione, e questo mette in pericolo la professionalità di chi lavora. Può capitare soprattutto in ambito medico, che poi è uno di quelli più delicati perché tratta di cose che ci sono molto vicine. Possono uscire articoli con un filo di compiacenza verso le case farmaceutiche, o di chi ti invita a fare quattro giorni a Praga o Parigi con tutte le spese coperte: ovvio che così si crea una certa pressione a pubblicare. È un problema non solo italiano, ma di mezzo mondo. Sono pratiche andate avanti per vent’anni, prima che qualcuno sollevasse dubbi sulla loro legittimità. Devo dire che però questi comportamenti sono cambiati molto: oggi sono più limitati, anche se può sempre capitare che ci siano conflitti di interesse per denaro o per pressioni occulte.
Occulte in che senso?
A cui, in qualche misura, non è facile resistere. Ma può anche capitare, per esempio, di lavorare a un comunicato stampa e sentirsi chiedere un pezzo sullo stesso argomento da un giornale con cui si collabora. Purtroppo così si mescolano due ruoli, e inevitabilmente si crea un conflitto di interesse, anche se molto, molto più piccolo rispetto a quello che succede in media in Italia.
Qual è stato il caso peggiore di conflitto di interesse in cui si è trovato coinvolto, e come ne è venuto fuori?
Sono conflitti minuscoli, in realtà. In un’occasione si trattava di valutare progetti di divulgazione scientifica per il Ministero della Pubblica Istruzione. Non ho partecipato alla votazione perché c’erano progetti portati avanti da persone che conosco bene, e di cui ho determinate opinioni – positive o negative che siano.
È un comportamento che si verifica spesso?
Non più di tanto, anche in quest’ultimo comitato più di una persona ha denunciato il proprio conflitto di interesse. Si trattava di distribuire soldi pubblici, quindi l’ho ritenuto un fatto molto positivo. Esistono molte più persone disposte a comportarsi onestamente di quanto crediamo di solito. Dovremmo essere più ottimisti, e non pensare per forza che la causa di questo Paese sia persa.