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«Vi restituirò il Dodo»

The_Dodo_and_the_Guiney_pigCRONACA – Lo scorso venerdì a Washington D.C. si è tenuto il meeting TEDx DeExtinction. Organizzato sul modello delle celebri TED conferences con la collaborazione del National Geographic, l’evento era dedicato alla possibilità di riportare in vita organismi estinti. Impossibile non pensare subito a Jurassic Park, la cui versione cinematografica tornerà di nuovo nelle sale in versione 3D: come riconosce anche Carl Zimmer, al quale è affidata l’introduzione, il tema della de-estinzione (questo il neologismo coniato per l’occasione) è stato reso per la prima volta familiare al pubblico grazie all’opera di Michael Crichton. Ma le cose ora sono un po’ diverse: in particolare ora abbiamo davvero tecnologie in grado di resuscitare delle specie, ed è probabile che nel prossimo decennio e in quelli a venire potremo realmente toccarne con mano alcune. Il dibattito sul tema non solleva solo problemi prettamente scientifici, ma va a toccare anche le corde dell’etica e della filosofia: sappiamo farlo, ma dovremmo farlo?

TEDx DeExtinction è stato appunto organizzato per riunire i maggiori esperti del campo e consentire loro di parlare pubblicamente del loro lavoro. La chiave della de-estinzione è, ovviamente, nel DNA. Purtroppo questa molecola non si conserva molto bene nel lungo periodo e il DNA antico è sempre molto frammentato. Se però, come spiega Hendrik Poinar mettiamo assieme il poco DNA che abbiamo ricavato da resti congelati di mammut, possiamo, semplificando estremamente, fare un po’ di “copia e incolla” per ricostruire il genoma della specie estinta partendo da quello dei parenti più prossimi, gli elefanti asiatici, tra i quali poi si dovrà anche scegliere la madre “surrogata” che porterà in grembo un singolare OGM che, se proprio non sarà un Mammut, certamente ci somiglierà. A questo link un’animazione che spiega i dettagli della “ricetta”.

Il procedimento è simile a quello descritto da George Church per clonare l’uomo di Neanderthal, ma attualmente è pura teoria e no, Church non è davvero alla ricerca di una madre surrogato umana (senza contare che, come è stato ricordato anche al TEDxDeexintction, nel nostro DNA già c’è un po’ di quello di Neanderthal).

Un altro modo per recuperare una specie estinta è quello messo in pratica dal Dott. Henri Kerkdijk-Otten, che attraverso il Tauros Project vuole riportare in vita il maestoso uro incrociando ad arte i suoi più diretti parenti, varietà particolarmente “ancestrali” di bovini. Il progetto usa come “canovaccio” sia la morfologia dell’uro, che ben conosciamo grazie ai resti ossei e alle innumerevoli rappresentazioni (a partire dalle pitture rupestri), sia le sequenze genetiche recuperate dai reperti museali con le quali parallelamente si cerca di ricostruire il genoma. In pratica si tratta di una sorta di “domesticazione inversa”.

Tra i tanti progetti di resurrezione presentati, il più eclatante è senz’altro il Project Lazarus del professor Michael Archer. La rana nella foto è Rheobatracus silus e assieme alla cugina Rheobatrachus vitellinus si è estinta in Australia negli anni ’80, poco dopo la loro scoperta e proprio nel momento in cui gli scienziati cominciavano a interessarsi a lei.

Rheobatrachus silus

Sì, perché non si tratta di rane qualunque. Nella foto non state vedendo un atto di cannibalismo: in queste specie la madre inghiottiva le uova e il suo stomaco diventava una specie di utero, nel quale i girini poi si sviluppavano e metamorfosavano fino a quando le piccole rane non erano pronte a risalire il canale digerente e saltare fuori dalla bocca della madre. Come era possibile tutto ciò? Sappiamo che erano le prostaglandine contenute prima nel muco che rivestiva le uova, e poi secreto dalle mucose dei girini a interrompere nello stomaco la produzione di acido cloridrico che avrebbe digerito le uova, ma non molto altro: una perdita incalcolabile secondo Archer, sia per la conservazione che per le scienza medica, che si è quindi chiesto se, da qualche parte, non ci fossero un po’ di nuclei di Rheobatracus coi i quali tentare una clonazione analoga a quella della pecora Dolly. Bingo! Il professor Mike Tyler, University of Adelaide, tra i primi a studiare l’animale, aveva nel suo freezer degli esemplari e dei campioni di tessuto. Purtroppo un normale freezer non è l’ideale per conservare le cellule, che ovviamente tendono a lacerarsi per l’espansione dell’acqua. Tuttavia qualche nucleo era ancora utilizzabile per la clonazione tramite trasferimento nucleare di cellule somatiche. Dopo centinaia di tentativi di far sviluppare i nuclei in uova di una specie affine (la quale, tanto per complicare le cose, depone uova solo una volta all’anno) lo scorso febbraio, ha rivelato Archer per la prima volta, una di queste cellule ha cominciato a dividersi, scatenando l’entusiasmo nel laboratorio.

Lo sviluppo dell’embrione si è fermato al momento “topico” della gastrulazione, ma questo risultato rimane una pietra miliare. Parallelamente Archer ha da tempo in programma di clonare il tilacino, la Tigre della Tasmania, a partire dalle cellule prelevate da un feto conservato in etanolo. Anche qui vale la pena essere ottimisti: nel 2008 un po’ di DNA di questo animale estinto è stato effettivamente resuscitato da alcuni ricercatori creando un topo transgenico dove uno degli enhancer (un pezzo di DNA che stimola la trascrizione, in questo caso del gene Col2a1 che consente la sintesi del collagene di tipo II) viene dal marsupiale.

Sono tanti gli organismi che, in teoria, potremmo de-estinguere (qui una galleria dei principali, Dodo compreso, con commento del National Geographic al cui tema ha dedicato la copertina del numero di aprile; qui un elenco completo fornito dalla The Long Now Foundation che ha voluto l’evento), ma perché dovremmo farlo?

Secondo alcuni conservazionisti, primo fra tutti Stewart Brand, co-fondatore della The Long Now Foundation, la de-estinzione è positiva a diversi livelli: non solo ciò che potremmo imparare da queste creature, e nel processo per ottenerle, è inestimabile, ma un giorno potremmo re-introdurre specie chiave di volta come i mammut o ipiccioni migratori con effetti benefici sull’ecosistema. Inoltre, con tante specie sull’orlo dell’estinzione, imparare le tecniche di de-estinzione potrebbe essere imperativo, ad esempio per intervenire prima che sia troppo tardi usando clonazione e ingegneria genetica per creare nuovi individui e allo stesso tempo introdurre artificialmente la variabilità genetica necessaria perché la popolazione sia meno vulnerabile. Sembra anche trasversale, tra i promotori della de-estinzione la condivisione di un presupposto di tipo morale, e forse tra tutti Michael Archer ha usato le parole più forti per spiegarlo: molte di queste specie le abbiamo estinte noi. Massacrate con le armi, come la Tigre della Tasmania, o sterminate con un fungo che abbiamo diffuso noi sul pianeta come nel caso della rane Rheobatracus (e la stessa cosa, per la cronaca, sta accadendo a molti altri anfibi).

I detrattori invece rigettano per prima cosa l’imperativo morale riducendolo a una forma di narcisismo e vera e propria ubris: gli ecosistemi cambiano, non esistono degli Eden da ripristinare, e nemmeno è possibile perché tra il resuscitare una manciata di individui e stabilire una popolazione riproduttiva in habitat decine, centinaia o migliaia di anni più recenti di quelli che hanno lasciato sono cose molto diverse. Perché non concentrare i nostri sforzi nel salvaguardare quello che abbiamo attraverso la tutela dell’intero habitat, ancor prima delle specie? E se queste prospettive di de-estinzione non fossero in questo controproducenti, cioè spingessero l’opinione pubblica e i policy makers a smettere di preoccuparsi della conservazione “tradizionale” perché, male che vada, tigri e gorilla si possono sempre clonare, e pazienza per le foreste?

TEDxDeextinction è stato trasmesso integralmente in streaming, con un notevole successo di pubblico. In attesa che ogni intervento venga caricato su youtube, a questo link è ora possibile trovare le registrazioni integrali.

CREDITI: immagine 1 – Public Domain, Wikimedia Commons; immagine 2 – Mcapdevila, Encyclopedia of Life 

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Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, mi sono formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrivo abitualmente sull’Aula di Scienze Zanichelli, Wired.it, OggiScienza e collaboro con Pikaia, il portale italiano dell’evoluzione. Ho scritto col pilota di rover marziani Paolo Bellutta il libro di divulgazione "Autisti marziani" (Zanichelli, 2014). Su twitter sono @Radioprozac