CRONACA – Zattere solide galleggianti su un mare profondo. Così in genere vengono descritte le placche litosferiche, quegli immensi frammenti in cui è suddivisa la litosfera, la parte più esterna del nostro pianeta, che comprende la crosta terrestre e la porzione più superficiale del mantello. Sotto, appunto, il mantello. Ma che cosa c’è esattamente tra i due strati? La domanda è rimasta a lungo una delle più misteriose per la geofisica, ma ora si comincia a intravedere una possibile risposta. Secondo uno studio pubblicato su “Nature” dal gruppo di ricerca di Kerry Key e Steven Constable dello Scripps Institution of Oceanography dell’Università di San Diego, infatti, lì in mezzo ci sarebbe uno strato molto sottile (qualche decina di chilometri) di materiale fuso, che agirebbe come un vero e proprio lubrificante per i movimenti delle placche litosferiche. Quelli che danno origine ai terremoti e ai fenomeni di vulcanesimo .
«Sappiamo da tempo che per permettere questi movimenti c’è bisogno di qualcosa di molto meno viscoso del mantello» chiarisce Antonio Piersanti, direttore della sezione di sismologia e tettonofisica dell’Ingv di Roma (che non ha preso parte allo studio). Già, ma cosa? Finora, le ipotesi contemplavano due possibilità principali: «Uno strato profondo con una viscosità ridotta per speciali caratteristiche fisiche, per esempio una maggiore idratazione, oppure uno strato sottile fatto di materiale almeno parzialmente fuso». A lungo la comunità scientifica è sembrata più orientata verso la prima possibilità, ma negli ultimi anni la seconda ha acquistato sempre più credito ed è proprio a questa che puntano i risultati raccolti dai geofisici americani: «Interessanti e ben documentati», commenta lo studioso italiano. Risultati, inoltre, che potrebbero dare una mano a capire ancora meglio la struttura e la dinamica delle placche e il modo in cui queste influenzano terremoti ed eruzioni vulcaniche.
Come spesso succede, Key e colleghi ci sono arrivati per caso, durante una campagna di indagini oceanografiche condotta al largo delle coste del Nicaragua con altri obiettivi scientifici. Nel corso della campagna, è stata posata sul fondo oceanico una lunga serie di sensori in grado di raccogliere misure di conducibilità elettrica, e dunque indirettamente di viscosità (tecnica magnetotellurica). Ebbene, proprio al di sotto della cosiddetta placca di Cocos, all’incirca tra 45 e 70 km di profondità, i geofisici hanno individuato una zona a elevata conducibilità: una caratteristica che, in base alle loro osservazioni, potrebbe essere spiegata con la presenza di uno strato sottile (circa 25 km) di materiale parzialmente fuso.
Occorre però ancora qualche cautela prima di dichiarare il mistero definitivamente svelato, proprio per via della particolare tecnica utilizzata. Si tratta infatti di una tecnica certo non nuova (viene usata per esempio per prospezioni petrolifere), ma in genere confinata a pochi chilometri di profondità, mentre le applicazioni per grandi profondità – come in questo caso – sono ancora ridotte. Insomma, raccolta e analisi dei dati in queste condizioni potrebbero non essere del tutto ottimizzati, il che suggerisce di aspettare ancora qualche conferma.
Crediti immagine: Mats Haldin, Wikimedia Commons