[audio http://audio.chirbit.com/claudioduz_1367436854.mp3|titles=Intervista a Enzo Gallori / musica: Quand je serai grand, Lohstana David]Il commento di Enzo Gallori (Univ. Firenze)
JEKYLL – Tracce nascoste in punti poco visibili, assenza di testimoni, congetture e supposizioni azzardate, una scena del crimine difficile da decifrare. Quelli che a prima vista sembrano i caratteri tipici di un film poliziesco sono invece i tratti salienti di un dilemma scientifico fondamentale: come si è formata la vita sulla Terra?
Archeologi molecolari, astronomi, biologi, chimici, climatologi e geologi da decenni cercano di capire dove sono nati i primi esseri viventi sul pianeta, quali caratteristiche avevano e come hanno fatto a sopravvivere. Un vero e proprio cold case scientifico, da risolvere attraverso studi all’apparenza molto distanti tra loro. Come nei migliori processi, però, a partire dagli stessi dati emergono tesi contrastanti, che rimandano il giudizio a nuove e più approfondite ricerche. Molte sono state le ipotesi, ma la teoria che negli anni si è fatta largo con maggiore forza è quella del cosiddetto «mondo a RNA», un’epoca in cui gli unici viventi sulla Terra erano batteri procarioti dotati di un patrimonio genetico basato sul singolo filamento di acido ribonucleico. A rimescolare le carte è però uno studio pubblicato recentemente su Pnas da Liam Longo e Michael Blaber della Florida State University di Tallahassee, negli Stati Uniti. Nella loro interpretazione dei fatti, il mondo a RNA sarebbe giunto in un secondo momento, perché le condizioni climatiche presenti sul pianeta avrebbero rapidamente degradato i fragili filamenti di RNA, impedendo così la nascita di qualunque essere vivente. In principio, secondo i due ricercatori, ci sarebbe stato un mondo pre-proteico.
Ma per capire a fondo la differenza tra le due teorie, occorre ricostruire l’ambientazione originale in cui si verificarono questi eventi. Come in un perfetto thriller dobbiamo immaginare la scena del crimine nel modo più accurato possibile. Torniamo dunque indietro a 3,5 miliardi di anni fa: il pianeta si è formato da poco più di un miliardo di anni, è scosso da terremoti ed eruzioni vulcaniche continue, ma presenta acqua allo stato liquido. L’atmosfera è priva di ossigeno, ma abbonda di metano, biossido di carbonio, azoto e ammoniaca. Non mancano poi miscele di altri gas serra, come acido solfidrico e solfuro ferroso, che contribuiscono a innalzare la temperatura a livelli molto superiori rispetto ai valori attuali. Fulmini e scariche elettriche si susseguono e la radiazione ultravioletta proveniente dal sole, in assenza di uno scudo naturale come l’ozono (che si forma solo se c’è ossigeno in atmosfera), può raggiungere facilmente il suolo. Tutte queste componenti messe insieme consentono la formazione di molecole biologiche come zuccheri, nucleotidi, aminoacidi e la loro aggregazione.
Secondo la teoria “ufficiale”, quella del mondo a RNA, in luoghi isolati e argillosi si sarebbero formate piccole sfere di lipidi all’interno delle quali sarebbero entrati pochi nucleotidi alla volta. Le particelle d’argilla, inoltre, avrebbero agito da catalizzatori, facilitando la formazione brevi filamenti di acido ribonucleico. Non erano cellule, ma una volta acquisita la capacità di autoreplicarsi, mostravano molte caratteristiche simili a quelle di un essere vivente. Teatro di questi eventi sarebbero stati i camini vulcanici sul fondo dell’oceano e i primi esseri viventi della storia sarebbero dunque stati dei termofili, ovvero dei batteri adattati a vivere in luoghi con alte temperature.
Ma è proprio questo il nodo della discordia. Secondo Longo e Blaber, per riuscire a resistere in un luogo simile i batteri avrebbero dovuto disporre di strutture di protezione molto avanzate e non le incerte difese dei primi viventi. I termofili si sarebbero dunque evoluti in un secondo momento, quando i batteri erano già “sicuri” di poter resistere al calore vulcanico. E allora, chi è stato a precederli e come ha fatto?
Il “colpevole” sarebbe stato un alofilo, ovvero un batterio in grado di resistere ad alte concentrazioni di sale, come quelle che oggi si ritrovano nel Mar Morto o nel Grande Lago Salato degli Stati Uniti. Qui gli aminoacidi si sarebbero legati insieme e il sale, soprattutto cloruro di sodio, avrebbe favorito il loro ripiegamento in strutture compatte e protette. Queste proto-proteine avrebbero “inconsapevolmente” svolto funzioni di base come rinforzare la membrana cellulare o proteggere i nucleotidi e così facendo avrebbero aperto la strada al mondo a RNA. Per dimostrare questa ipotesi, il gruppo di ricerca ha svolto uno studio sugli aminoacidi. Tra i venti canonici aminoacidi, la metà non avrebbe avuto bisogno di forme di vita per esistere. Sono i cosiddetti «aminoacidi prebiotici», ovvero alanina, acido aspartico, acido glutammico, glicina, isoleucina, leucina, prolina, serotonina, treonina e valina, che sarebbero giunti sul pianeta direttamente dallo spazio. Qui avrebbero poi trovato un ambiente favorevole perché ricco di carbonio e azoto. Queste supposizioni ricalcano alcune ricerche condotte in passato su meteoriti e frammenti di roccia caduti dal cielo.
Le prove indiziarie per smascherare il colpevole paiono dunque salde, ma occorrerà attendere il parere della giuria, ovvero gli esperti del settore, per conoscere il verdetto.
Crediti per l’immagine di apertura: Wilson44691/Wikipedia Commons