AMBIENTE – A fine luglio, in piena notte, un container con materiale nucleare esce dal centro Itrec di Trisaia di Rotondella e, scortato dalla forze ordine, si dirige verso un aeroporto militare. Il carico viene trasferito su un aereo che si allontana. Due giorni dopo, il mistero viene svelato dalla Sogin, la società italiana specializzata nella bonifica di siti nucleari: un’operazione di “rimpatrio negli Usa di materiali nucleari sensibili di origine americana, che erano custoditi in appositi siti in Italia per attività di ricerca e di sperimentazione”.
Dopo il no al nucleare del 1987, l’Italia ha dovuto avviare e pianificare una strategia per la gestione dei rifiuti radioattivi derivanti dal pregresso programma nucleare. A oggi, secondo gli ultimi dati forniti dall’Ispra, le scorie nucleari ammontano a più di 28.000 metri cubi, di cui 26.500 a bassa e media attività e 1.700 metri cubi ad alta attività. A questi si aggiungeranno altri 30.000 metri cubi provenienti dalle operazioni di smantellamento e bonifica delle installazioni nucleari. La maggior parte di questi rifiuti radioattivi si trovano nelle ex centrali nucleari (Caorso, Garigliano, Latina e Trino Vercellese) e negli impianti di ricerca (Saluggia, Trisaia Rotondella, Casaccia, Saluggia, Ispra). Infine, è atteso anche il rientro in Italia di alcune decine di metri cubi di combustibile radioattivo spedito in Gran Bretagna e in Francia per essere riprocessato.
Ma il conto non finisce qui. Oltre ai rifiuti di tipo energetico, ci sono altri 4.000 metri cubi provenienti da applicazioni mediche, industriali e di ricerca. E ogni anno se ne aggiungono alcune centinaia.