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RU486 – Una “tragica fatalità” da non strumentalizzare

9741657095_c949981ae7_bLA VOCE DEL MASTER – “No a strumentalizzazioni e campagna antiabortista”. Questo e il rispetto per la famiglia è quanto chiesto dagli amici della donna di 37 anni deceduta mercoledì scorso all’ospedale Martini di Torino dopo l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) con RU486. Il caso è destinato a riaprire la diatriba tra detrattori e sostenitori della RU486, l’ultimo metodo adottato dalla medicina per indurre l’aborto nelle prime settimane di gestazione.

Per molti medici, però, questa prima morte in Italia non mette in discussione l’efficacia e la sicurezza dell’approccio farmacologico all’Ivg. Il protocollo di applicazione prevede 3 giorni di ospedalizzazione (che la donna può rifiutare firmando per la dimissione volontaria), con un successivo controllo clinico nell’arco di 14 giorni. Dopo due giorni dall’assunzione di mifepristone, meglio noto come RU486, la donna viene sottoposta ad accertamenti per verificare l’espulsione del materiale di fecondazione. Qualora questa non sia ancora avvenuta, si procede con la somministrazione di analoghi delle prostaglandine, sostanze in grado di dilatare il collo dell’utero e provocare contrazioni che permettono l’eliminazione dell’embrione.

L’effetto della combinazione dei due farmaci è considerato paragonabile per efficacia e sicurezza a quella dell’intervento chirurgico. “Il metodo migliore – afferma Tullia Todros, Direttore di Ginecologia ed Ostetricia 2 universitaria dell’ospedale Sant’Anna della Città della Salute di Torino – è sempre quello che viene scelto tenendo conto della persona nel suo complesso, del suo quadro clinico e psicologico. Se però parliamo di Ivg entro i 49 giorni di gestazione, in assenza dei criteri di esclusione descritti nei protocolli e previsti dalla legge (ndr. Legge n.194 del 1978), il mio parere medico è di procedere con l’interruzione di gravidanza farmacologica. L’approccio farmacologico è meno invasivo per la donna: evita i rischi sempre connessi a un intervento chirurgico e non causa quelle piccole lacerazioni dell’utero che la chirurgia può provocare.”

Todros conferma poi quanto già dichiarato nei giorni scorsi da Silvio Viale, il ginecologo dell’Ospedale Sant’Anna di Torino che per primo nel 2005 avviò la sperimentazione della RU486 in Italia: “non esistono evidenze nella letteratura medica tali da far pensare a un nesso causa-effetto tra l’assunzione di questi farmaci e decessi come quello della donna a Torino. Gli analoghi delle prostaglandine e il mifepristone sono utilizzati ormai da anni in molti Paesi europei e negli Usa non solo per l’aborto farmacologico, ma anche per quello chirurgico”.

Timeline: RU486: L’ITER DEL MIFEPRISTONE
La ricostruzione della storia del mifepristone, meglio noto come RU486, dalla nascita del farmaco alla sua approvazione e adozione in Italia.

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Crediti immagine: kev-shine, Flickr

Timeline: Mara Magistroni

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