L’alpinismo “apre una via” per la tutela ambientale. Mountain Wilderness Wakhi Project – Pakistan
AMBIENTE – È un dato di fatto che le azioni internazionali in ambito di conservazione ambientale, espresse dall’istituzione di Parchi Nazionali dai vincoli stringenti, si siano spesso duramente scontrate con le esigenze delle comunità locali, che sul rapporto di scambio e interazione con la natura hanno fondato la loro stessa storia. Regole di tutela vissute come un’imposizione incomprensibile e nociva hanno fatto nascere malcontenti e scontri che spesso si sono frapposti agli obiettivi stessi della conservazione. Molte volte il processo con cui vengono strutturate e applicate le strategie di conservazione, avviene secondo una logica top down di imposizione dall’alto, che non coinvolge o non tutela gli interessi di chi, su quel territorio, vive da sempre. Non mi stupisco quindi quando Amin Ullah, della comunità di Shimshal, nel Pakistan settentrionale (Gilgit Baltistan) mi dice orgogliosamente “noi sappiamo benissimo da soli come prenderci cura del nostro territorio”, quando gli chiedo quali siano i rapporti della sua comunità con il Parco Nazionale del Khunjerab, istituito nel 1975. Shimshal, dopo lotte e contestazioni, ha ottenuto di essere estromessa dai confini del Parco, creando un’istituzione autogestita di management ambientale, culturale e sociale chiamata Shimshal Nature Trust che ha fatto della propria identità, conoscenze tradizionali, scienza e innovazione strumento per adattarsi alle nuove sfide senza distruggere i criteri di gestione locale. Oggi trovare nuove strategie per coniugare tutela ambientale e culturale è una delle più grandi sfide aperte nel campo della conservazione internazionale.
Amin è uno degli allievi più anziani ed esperti dell’ Advanced course of environment friendly mountaineering, partito nell’estate 2013 su iniziativa di Mountain Wilderness International e dell’Aga Khan foundation e che il 25 maggio 2014 inizia la sua fase finale e di follow up. “Si tratta di un corso di alta specializzazione alpinistica, ecologica e naturalistica” spiega Carlo Alberto Pinelli, direttore del corso e Presidente di Mountain Wilderness Italia, “riservato a giovani del posto già esperti di montagna intenzionati ad acquisire le competenze necessarie per offrirsi con professionalità e autonomia a turisti ed escursionisti come portatori d’alta quota specializzati, guide di trekking difficili, di wild animal watching o per tentare la strada dell’alpinismo”. Ma non solo tecnica e alpinismo. Fra gli obiettivi del corso di environment friendly mountaineering, quello di creare i presupposti per lo sviluppo di un turismo alpinistico consapevole, in controtendenza con gli eccessi consumistici di altre ben più note mete himalayane. In altre parole il corso è progettato per trasmettere concetti ecological friendly che traducono la conservazione, la tutela e il rispetto ambientale in vantaggio economico. L’obiettivo è che i ragazzi che seguono questi corsi impostino la loro attività su una imprescindibile basi di rispetto ambientale.
Tredici gli allievi che al termine dell’estate 2013 avevano conquistato il titolo di istruttori e che oggi si ritrovano nel villaggio di Passu (Pakistan settentrionale) ad affrontare l’ultima parte della loro sfida. Come Amin, quasi tutti arrivano dalla comunità di Shimshal, un aggregato di 200 famiglie che governano un territorio, a 3500 metri di quota, delle dimensioni della Svizzera. Dominata da nove cime oltre 7000 m, pascoli, foreste e immensi ghiacciai, questa comunità ha profonde radici culturali e un’identità orgogliosa, isolata dal resto del mondo fino a tre anni fa quando una strada sterrata di 53 km l’ha collegata alla Karakorum Highway. La vita di questa comunità ismaelita è da sempre fortemente connessa alle leggi naturali, il suo benessere e sostentamento si basano integralmente sulle risorse offerte dalla montagna. Il caso di Shimshal e della sua ribellione nei confronti delle restrizioni del Parco è emblematico. Il parco del Khunjerab, fra i più alti del mondo, è stato istituito per proteggere specie in via di estinzione quali la pecora blu, la capra di Marco Polo, lo stambecco e il leopardo delle nevi. Molte di queste specie sono tradizionalmente obiettivo di caccia delle popolazioni locali. Inizialmente, classificato di categoria II, il Parco escludeva qualsiasi intervento umano all’interno dei suoi confini. Niente pascolo quindi e, naturalmente, niente caccia. Ma i Shimshali continuarono il loro transumante stile di vita fino alla modificazione dei confini del Parco.
“In molte regioni del Pakistan si vive seguendo antiche leggi tradizionali” mi dice Afzel Sheraze, presidente di Mountain Wilderness Pakistan “queste comunità temono che quando organizzazioni o istituzioni internazionali vogliono dichiarare un’area parco nazionale, questo significhi per loro non poter più pascolare i propri animali e non poter più attingere a risorse idriche e forestali che da sempre soddisfano le loro necessità. L’idea che questo non possa essere più fatto è intollerabile. Quello che generalmente gli viene detto è che arriverà un’organizzazione straniera che li depriverà dei loro diritti”.
La ribellione all’abolizione della caccia è forte. “Le popolazioni locali vedono la caccia come un sacrosanto diritto” spiega Carlo Alberto Pinelli “uccidere una pecora blu significa avere bei tappeti caldi in casa per l’inverno”. Stiamo parlando di comunità che in inverno spesso non hanno né luce né acqua. “Dobbiamo essere rispettosi della mentalità locale, perché fare violenza sulle credenze popolari porta pochi frutti oltre ad essere moralmente sbagliato”. Troppe volte il processo di tutela con relativa modificazione legislativa territoriale si è svolto al di fuori delle cerchia del villaggio, lontano dalle esigenze reali e più aderente a principi teorici. “Credo che la creazione di un parco nazionale sia fondamentale per la conservazione della natura e della biodiversità” sostiene Afzel Shiraze “ma credo anche che le paure e reticenze della popolazione locale debbano essere tenute da conto nella creazione di un parco”.
“Deve diventare un do ut des” prosegue Pinelli “in cui la perdita di libertà di movimento nel proprio territorio è controbilanciata da un guadagno in altri campi”.
La soluzione è far diventare una sorta di buisness? Chiedo a Pinelli.
“La protezione di certo deve portare dei vantaggi economici, ma è un concetto ben diverso da quello mercantilistico. Viviamo in un mondo fortemente antropizzato, violentato in tutti i modi e quello che resta va protetto prioritariamente. La soluzione dev’essere congiunta e integrata. Come piccola associazione Mountain Wilderness si occupa di un settore del fronte, quello dell’alpinismo e della tutela delle montagne, consapevole però che il fronte globale è molto più ampio. Facciamo quel che possiamo nel rispetto degli usi e tradizioni locali. Il Parco dovrebbe essere fatto convocando tutte le parti e sentendo tutte le voci; patteggiando un do ut des e spiegando con gli strumenti culturali locali, l’utilità del parco stesso”.
L’entusiasmo generato nei ragazzi pakistani dal corso di alpinismo organizzato da Mountain Wilderness può essere interpretato come segnale di un possibile cambiamento di strategia. La montagna infatti è patrimonio culturale delle popolazioni locali che dall’interazione con questo ambiente hanno tratto la propria sopravvivenza. La montagna può diventare appannaggio della loro specializzazione professionale e loro stessi, in maniera autonoma e autogestita possono fondare il proprio sviluppo su valori di tutela e conservazione della wilderness che rappresentano, nella mentalità turistica moderna, un valore aggiunto. La speranza è quella di poter suggerire, attraverso questo tipo di iniziative, un modello di sviluppo integrato fra interessi locali e necessità globali, trasformando i vincoli necessariamente imposti dalla conservazione, in vantaggi comunitari.
Crediti immagine: Anna Sustersic