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Quando le mucche avevano le dita

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RICERCA – Da quanto emerge dalle testimonianze fossili, l’antenato comune a tutti i vertebrati terrestri, chiamati tetrapodi, aveva arti dotati di cinque dita, come molti attuali mammiferi tra cui l’uomo e il topo. Tuttavia, nel corso della loro evoluzione i mammiferi hanno modificato le estremità degli arti in diversi modi, variando anche il numero di dita. Un esempio di questo sono gli artiodattili (Ordine Artiodactyla), ovvero i mammiferi ungulati con dita pari, quali bovini, suini e cammelli. Infatti, in questo gruppo, da non confondere con i perissodattili (Ordine Perissodactyla), quali cavalli, tapiri e rinoceronti, l’arto è sostenuto da sole due dita: il terzo e il quarto (anche se esistono numerose eccezioni). Ma quali sono stati i meccanismi evolutivi che hanno permesso questa straordinaria variabilità del numero di dita?

Da uno studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Nature, il segreto di questa plasticità che si riscontra nei mammiferi sembra sia legato ad alcuni geni che determinano lo sviluppo embrionale. In particolare, il gruppo di ricerca coordinato dal Prof. Rolf Zeller dell’Università di Basilea ha confrontato i pattern di espressione di alcuni geni che codificano per lo sviluppo degli arti in embrioni di topo e mucca. Dai risultati emerge che lo sviluppo degli arti inizia in maniera molto simile nelle due specie, ma che nelle fasi successive, quando iniziano a formarsi le appendici, si manifestano importanti differenze. Nei topi, infatti, i geni Hox, importanti regolatori dello sviluppo embrionale di tutti gli animali, si attivano in maniera asimmetrica negli abbozzi degli arti, in modo tale da attivare la formazione della parte distale del loro scheletro. E’ proprio questa distribuzione asimmetrica a determinare la formazione delle cinque dita. Diverso è invece il discorso per gli embrioni di mucca: in questa specie, infatti, la distribuzione dei geni Hox risulta simmetrica, portando alla formazione di un numero di dita pari.

Il responsabile di questa diversa distribuzione dell’attivazione genica nelle due specie è un gene che codifica per una proteina recettrice, chiamato Patched1, la cui alterazione della sequenza impedisce alla parte distale degli arti dell’embrione di mucca di ricevere correttamente le informazioni provenienti dal resto dell’embrione, compromettendo così la crescita delle ‘normali’ cinque dita. Una o più mutazioni, avvenute approssimativamente 55 milioni di anni fa, a carico di questo gene sono quindi fortemente indiziate per aver promosso l’origine di un’importante novità evolutiva, che avrebbe poi consentito la formazione dei tipici arti degli artiodattili, fondamentali per il loro straordinario successo ecologico ed evolutivo (al giorno d’oggi si contano oltre 300 specie diverse).

Oltre a fornire importanti informazioni sui meccanismi mediante cui è avvenuta la diversificazione degli arti dei mammiferi, questi risultati confermano anche il ruolo cruciale dei geni regolatori dello sviluppo come sorgenti di variabilità genetica, nonché fondamentali promotori di novità evolutive. Evidentemente, una mutazione in un gene coinvolto nell’embriogenesi può determinare profonde modificazioni anatomiche, che, se selezionate positivamente, potrebbero portare alla diversificazione delle forme di vita. E’ possibile che la maggior parte dei cambiamenti macroevolutivi parta proprio da qui.

Crediti immagine: Admond, Flickr

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Andrea Romano
Biologo e giornalista scientifico, lavora come ecologo all'Università degli Studi di Milano, dove studia il comportamento animale. Scrive di animali, natura ed evoluzione anche su Le Scienze e Focus D&R. Dal 2008, è caporedattore di Pikaia - portale dell'evoluzione