RICERCA – I videogiochi sono davvero diseducativi? Da tempo ormai gli psicologi si interrogano su questo tema, soprattutto per quanto riguarda quei giochi dove non mancano i contenuti violenti e immorali. Un recente studio, pubblicato sulla rivista Cyberpsychology, Behavior and Social Networking, si inserisce nel dibattito dimostrando che le azioni riprovevoli effettuate in un videogioco possono incoraggiare una maggiore sensibilità da parte dei giocatori verso i codici morali che hanno violato.
I risultati ottenuti da Matthew Grizzard, ricercatore del Dipartimento di Comunicazione dell’Università di Buffalo, in collaborazione con altri colleghi delle Università del Michigan e del Texas, hanno confermato un fatto già osservato da altri ricercatori, e cioè che i comportamenti adottati in un ambiente virtuale possono generare sensi di colpa. Altri studi precedenti avevano invece dimostrato che, in simulazioni di vita reale, i sensi di colpa evocati da atteggiamenti immorali erano in grado di innescare dei comportamenti prosociali, cioè che portano un beneficio ad altri individui o alla società in generale.
Grizzard e i suoi colleghi hanno quindi fatto un passo in più: hanno messo insieme queste due informazioni e si sono chiesti se anche eventuali azioni immorali commesse in un contesto virtuale sono in grado non solo di far sentire in colpa chi li ha praticate, ma anche di indurlo eventualmente ad adottare un comportamento più sensibile rispetto ai codici morali che ha infranto nel gioco.
I ricercatori hanno quindi sviluppato un esperimento che consentisse di confrontare sia esperienze virtuali con simulazioni di vita reale, sia situazioni che inducono senso di colpa con situazioni che non lo inducono. In questo esperimento, i partecipanti venivano inizialmente divisi in due gruppi, in maniera casuale: i membri del gruppo di controllo dovevano giocare a un videogioco del genere sparatutto nei panni di un soldato delle Nazioni Unite oppure richiamare alla memoria azioni che non generano senso di colpa; anche i membri dell’altro gruppo dovevano giocare a uno sparatutto, ma in questo caso nei panni di un terrorista, oppure ripensare ad azioni in grado di farli sentire in colpa. Una volta completati questi compiti, i partecipanti dovevano compilare un questionario che consentisse di valutare l’importanza che loro attribuivano a cinque diversi ambiti morali: lealtà di gruppo, rispetto per l’autorità, solidarietà, correttezza e purezza.
L’analisi dei risultati ottenuti ha rivelato che esiste una netta correlazione fra il senso di colpa indotto dal videogioco e la sensibilità nei confronti dei codici morali che in esso erano stati violati.
Tanto nella vita reale quanto in quella virtuale, la definizione specifica di comportamento morale cambia, per ciascuno dei cinque ambiti analizzati, a seconda della cultura e della situazione. Un esempio fatto dagli autori è che un americano tende a considerare molto più immorale un’azione violenta se la esegue nei panni di un terrorista piuttosto che in quelli di un soldato dell’ONU durante una missione di pace.
Non sarà certo questo studio a risolvere l’annosa discussione sulla presunta pericolosità di certi videogiochi. Di sicuro i risultati ottenuti da Grizzard e dai suoi colleghi mostrano che il fatto di commettere atti violenti o immorali in un gioco non comporta automaticamente una maggior predisposizione a ripetere tali atti anche nella vita vera. Anzi. Inoltre, conferma e sottolinea il ruolo dell’esperienza indiretta o mediata nella formazione dei nostri giudizi morali.
Crediti immagine: Katherine McAdoo, Flickr