AMBIENTE – Non solo uliveti e vigne: in Toscana si coltiveranno a breve anche quinoa e amaranto, da sempre due alimenti base della dieta del Centro e Sudamerica. La ragione è molto semplice: questi pseudocereali sono sempre più richiesti dai mercati internazionali nel settore dell’industria alimentare, soprattutto grazie allo loro totale assenza di glutine, di quella cosmetica e, non ultimo, anche di quella farmaceutica. Tutto questo anche se il loro prezzo internazionale è decisamente maggiore rispetto ai cereali più comuni, cioè frumento, mais, riso, orzo e avena. La quinoa per esempio, ha raggiunto la quotazione di 360 dollari al quintale mentre per il frumento ci aggiriamo intorno ai 19. Ma che cosa rende i semi di queste piante tanto appetibili da cercare di estendere la loro coltivazione anche nel nostro paese? Ne abbiamo parlato con Paolo Casini, professore associato di Agronomia e Coltivazioni Erbacee dell’Università di Firenze, che in collaborazione con “Terre Regionali Toscane” e con un finanziamento dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze, ha organizzato qualche giorno fa una giornata intitolata “Superfood in Tuscany – I grani delle Ande si possono coltivare in Toscana”.
La prima domanda che viene in mente è perché solo oggi, dopo quasi cinque secoli da che l’Occidente ha introdotto il mais nella propria dieta, si è deciso di importare anche coltivazioni di quinoa e amaranto?
La risposta è molto semplice e deriva dalla nostra storia. Intanto si deve premettere che anche questi due pseudocereali sono molto antichi, esattamente come il mais, e costituivano una parte significativa della dieta delle antiche popolazioni dei Maya, Inca ed Aztechi. A differenza del mais però, questi semi erano utilizzati nell’ambito di riti religiosi che i “conquistadores”, gli spagnoli, consideravano pagani. In particolare, semi e farina venivano mescolati con miele ma anche con sangue per modellare delle statuette sacre che venivano poi mangiate durante questi rituali. Gli spagnoli, come è evidente, hanno dunque fatto di tutto per vietare l’utilizzo di queste piante preferendogli invece il mais. Va inoltre aggiunto che amaranto e quinoa sono piante di difficile lavorazione a causa dei loro semi molto piccoli, per cui sono necessarie tecniche di raccolta assai più impegnative rispetto, appunto, al mais o al frumento. Il fascino delle specie esotiche, le loro particolari proprietà alimentari (elevato contenuto proteico e digeribilità ed estremamente bilanciati dal punto di vista nutrizionale) e l’ incremento delle richieste dei mercati, oltre alla possibilità di costituire una valida alternativa per i nostri agricoltori, sono tutti elementi alla base del loro attuale successo.
Entrando invece nel merito delle proprietà di questi pseudocereali, perché stanno destando l’interesse del mercato?
Fondamentalmente per la loro notevole versatilità, nell’industria alimentare prima di tutto, ma anche in cosmetica e farmaceutica. L’amido di amaranto per esempio, viene usato dall’industria alimentare come addensante ed i semi, tal quali o soffiati, nei preparati per dolci; senza contare poi il suo impiego come sostituto del talco per prodotti anallergici. Ma l’impiego forse più interessante riguarda la possibilità dell’estrazione dello squalene (un idrocarburo e triterpene) contenuto nell’olio di amaranto apprezzato in farmacologia per la capacità ridurre il colesterolo LDL ed in cosmetica per le sue proprietà antinvecchiamento della pelle. A tutt’oggi tale sostanza si estrae prevalentemente dall’olio di fegato degli squali, da cui il nome. In realtà lo squalene si può ottenere anche dalle olive, dalla crusca di riso, dal germe di frumento e dall’amaranto, appunto, nel quale è contenuto in percentuale variabile tra il 5 e l’8% della frazione oleosa. È quindi evidente che, dal momento che a livello internazionale ci si sta impegnando per garantire una pesca sostenibile, se l’industria cosmetica intende continuare a utilizzare lo squalene dovremmo cominciare a considerare delle alternative agli squali, e l’amaranto è forse la più valida tra queste.
Dal punto di vista alimentare poi, quinoa e amaranto sono privi di glutine e molto saporiti al tempo stesso, il che li rende alimenti adatti al consumo anche per i celiaci.
Quindi a chi interessa maggiormente implementare questo tipo di coltivazioni: alla grande industria alimentare o ai piccoli coltivatori? In altre parole, è sostenibile per tutti i produttori?
Diciamo che è sostenibile sotto diversi punti di vista. In primo luogo sia l’amaranto che la quinoa sono piante con notevole variabilità genetica, perché sono l’eredità di popolazioni che si sono adattate a diversi ambienti. Per questa ragione siamo convinti che le varietà che abbiamo selezionato per le coltivazioni in Toscana, risponderanno molto bene alle nostre latitudini ed i primi risultati ce lo stanno confermando. Soprattutto si riveleranno preziose alternative nella rotazione della colture, aspetto molto importante ed imprescindibile soprattutto nell’ambito dell’agricoltura biologica e biodinamica. Inoltre, sono entrambe piante rustiche, nel senso che tollerano molto bene le alte temperature e la siccità. Questo significa minor necessità di acqua e quindi un risparmio per il produttore. Venendo alla sua domanda, quinoa ed amaranto costituiscono senz’altro potenziali risorse sia per il piccolo che per il grande coltivatore perché si inserirebbero in una filiera totalmente nuova e le richieste fanno presagire che il mercato sarà comunque promettente. Prospettiva che risponde molto bene a quello che richiedono per esempio i piccoli coltivatori, che stanno cercando nuove strade in alternativa ad alcune piante industriali, come il mais ad esempio.
Attualmente dunque quali sono gli attori principali sulla scena internazionale?
Dunque, l’amaranto che viene importato in Italia viene soprattutto dalla Germania, anche se ciò non significa che sia prodotto in loco, ma solo che lì viene confezionato. La produzione rimane sostanzialmente centro-sudamericana. Per la quinoa la quasi totalità della produzione proviene in egual misura dalla Bolivia e dal Perù e solo in piccola parte dall’Equador. Per l’amaranto si parla prevalentemente di Messico, India, Cina e per l’Europa di Repubblica Ceca.
Il progetto italiano dovrebbe quindi dare slancio al mercato europeo in modo da dipendere sempre meno dalle importazioni oltreoceano.
Sì, questo è certamente uno degli aspetti di innovazione, ma forse il punto più interessante è un altro. Se consideriamo l’andamento del mercato della quinoa notiamo che la produzione a livello mondiale è passata dalle 45.000 tonnellate del 2001 alle attuali 82.000, e ciò ha provocato la crescita esponenziale del prezzo, che è passato, nello stesso periodo, da 400 dollari per tonnellata a 3600 dollari. L’aspetto preoccupante è che queste dinamiche, invece di portare beneficio alle popolazioni dei paesi produttori, in molti casi hanno contribuito a peggiorare lo stile di vita soprattutto di quella ampia fascia di persone che vivono nelle aree urbane o suburbane; quelle cioè che per nutrirsi comprano gli alimenti ai mercati non essendo agricoltori. Infatti, proprio a causa del vertiginoso aumento del prezzo, anche se in parte calmierato dei governi locali,soprattutto quello boliviano, il consumo di quinoa nella dieta dei bambini e anziani è scesa del 34%.
Le aree di coltivazione di queste due specie inoltre si stanno progressivamente ampliando. La già citata variabilità genetica di quinoa e amaranto è tale da consentire di individuare e selezionare varietà adatte alla coltivazione al di fuori delle aree di origine. È esattamente quello che stiamo portando avanti con questo progetto che, al momento, ci ha dato molta soddisfazione. In questo modo, contiamo non soltanto di stimolare la creazione di nuove filiera italiane, ma anche di dare un piccolo contributo, insieme anche ad altri paesi occidentali grandi importatori di queste piante, a livellare i prezzi internazionali in modo da accontentare i produttori tradizionali senza troppo intaccare l’accessibilità di massa di queste insostituibili fonti alimentari che da sempre rivestono un ruolo di primaria importanza nella dieta delle popolazioni locali.
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Crediti immagini: Paolo Casini