RICERCA – Se le popolazioni tibetane non soffrono come noi il mal di quota è merito di una mutazione genetica, apparsa 8000 anni fa e diventata, per selezione naturale, caratteristica tipica del fenotipo delle alte quote. A dimostrarlo è lo studio condotto da Josef Prchal dell’ University of Utah, School of Medicine, pubblicato su Nature genetics.
La mutazione interessa in particolare un gene coinvolto nel processo di regolazione delle risposte adattative al cambio di quota, ovvero di pressione. Mentre la quota aumenta infatti, diminuisce la pressione barometrica e quella parziale dell’ossigeno condizioni che, per garantire il mantenimento dei livelli di ossigeno nel sangue, generano una normale risposta fisiologica nell’ “uomo di mare”: un aumento di numero e volume dei globuli rossi e conseguentemente, di emoglobina.
Questa e le altre risposte adattative sono coordinate da fattori di trascrizione, regolati a loro volta da un enzima la cui codifica è a carico proprio del gene mutante. Sebbene la risposta ematica all’aumento di quota sia il meccanismo necessario a garantire il mantenimento dello scambio di ossigeno anche in condizioni di scarsa pressione, un eccesso di densità sanguigna dovuto a un continuo aumento di volume e numero dei globuli rossi può generare policitemia, ovvero un rallentamento del flusso e quindi della distribuzione dell’ossigeno nei tessuti. La mutazione che distingue gli abitanti delle alture, sembrerebbe intervenire proprio nella regolazione di produzione di globuli rossi, prevenendo il rischio di policitemia. La maggior parte dei tibetani infatti, mantiene in quota un volume dei globuli rossi comparabile con quello delle popolazioni che vivono a livello del mare. Vale a dire che in condizioni ambientali critiche per la maggior parte di noi, dove un respiro normale ne vale cinque e il cuore batte a mille, i tibetani trottano senza difficoltà, addestrati da 8000 anni di perfezionamento del gene della montagna.
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Crediti immagine: Anna Sustersic