SPECIALE SETTEMBRE – L’ultima ad attirare l’attenzione della cronaca è stata l’eruzione del vulcano ONtake in Giappone, verificatasi il 27 settembre scorso. Secondo le parole di David Rothery, professore di Scienza Planetaria presso la Open University, quello che vi è di sorprendente in tale eruzione è che il vulcano “ha eruttato senza preavviso […]. Ma le analisi dei dati potrebbero rivelare informazioni che, con il senno di poi, dovrebbero essere lette come segnali di allarme”. Quanto osservato durante questa occasione ci servirà insomma come lezione per il futuro.
La vulcanologia si è trasformata negli ultimi decenni da scienza osservativa a scienza quantitativa. Oggi ci sono strumenti per raccogliere una grande quantità di dati a ridosso dei vulcani: si misura la deformazione del suolo, l’attività sismica a vari livelli di frequenza, le variazioni di temperatura, i gas prodotti e la loro composizione chimica. A questi dati si aggiungono le osservazioni satellitari: ad esempio è attivo EVOSS un progetto europeo a cui partecipa anche l’Italia, che ha creato un sistema satellitare per monitorare i vulcani di tutto il mondo. Dal satellite è infatti possibile monitorare il calore emanato dal vulcano, le ceneri e i gas sprigionati, e le mutazioni fisiche che si verificano sulla superficie terrestre.
I vulcanologi si occupano poi di analizzare, valutare e infine elaborare i dati raccolti con approcci matematici, cosa che permette loro di prevedere qual è la propensione di un sistema nell’evolvere da una condizione stabile a un’altra. Siamo dunque ancora lontani dal sapere il giorno e l’ora di un’eruzione, ma prende sempre più piede l’elaborazione di modelli probabilistici, creati in base a tutte le informazioni raccolte sul campo e costruiti su schemi ben precisi, che permettono di stimare la probabilità che si verifichi un certo evento e l’incertezza associata alla valutazione.
“Le eruzioni vulcaniche sono eventi complessi”, ha spiegato Paolo Papale, direttore della Struttura Vulcani Dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). “Le grandezze in gioco infatti non interagiscono tra loro in modo lineare e quindi non è facile prevedere come evolverà il sistema su cui agiscono”. A questo si aggiunga inoltre che “gran parte dei sistemi vulcanici non è accessibile all’osservazione diretta”: in sostanza non ci sono strumenti installati all’interno della camera magmatica, ma le informazione che raccolgono i ricercatori sono di tipo indiretto, sono le conseguenze “superficiali” di quanto avviene nelle profondità della terra.
L’Italia e il rischio di eruzioni vulcaniche
L’Italia è insieme all’Islanda la zona con la maggior concentrazione di vulcani attivi nel continente europeo. I vulcani sono presenti soprattutto nella parte centro-meridionale della penisola. “La zona a più alto rischio vulcanico è di certo quella che si colloca tra il Vesuvio e i Campi Flegrei”, ha detto Papale. Infatti il rischio di un vulcano si misura sia in base alle sue caratteristiche (la tipologia di eruzione), sia in base alla densità della popolazione e alla presenza di beni materiali (valore) che potrebbero essere investiti dall’eruzione. Il tipo di eruzione più pericolosa è quella esplosiva, caratterizzata dalla liberazione di gas e dall’espulsione di particelle piroclastiche. L’eruzione effusiva, dovuta soprattutto alla fuoriuscita di lava, è invece considerata meno rischiosa. L’area napoletana, in cui si concentra un’attività vulcanica di tipo esplosivo e in cui vivono circa tre milioni di persone, si conferma dunque la zona a più alto rischio.
Il territorio campano è un sorvegliato speciale: vi sono banche dati che raccolgono tutte le informazioni sull’attività del Vesuvio e del Campi Flegrei; ci sono poi progetti nazionali dedicati allo studio di quest’area, ma anche importanti coinvolgimenti a livello internazionale. “La multidisciplinarità è alla base dell’INGV a livello nazionale. Il fatto poi di partecipare a vari progetti internazionali è un punto di forza ulteriore perché permette di scambiare informazioni e competenze”, ha commentato Paolo Papale, che è anche Principal Investigator di VUELCO, un progetto europeo iniziato sotto il settimo programma quadro.
VUELCO, che ha ricevuto 3,5 milioni di euro di finanziamenti da parte della Commissione Europea, vede coinvolti Regno Unito, Spagna, Germania, Messico, Giamaica e Ecuador. Per l’Italia sono presenti sia i ricercatori dell’INGV che i membri della Protezione Civile.
“Con VUELCO abbiamo studiato le dinamiche cui vanno incontro i vulcani prima di un’eruzione”, ha spiegato Papale.
Tra i vulcani inseriti all’interno del progetto vi era anche quello dei Campi Flegrei, che è stato anche oggetto di una simulazione di emergenza vulcanica. A differenza di quanto accaduto nel 2006 durante la simulazione MESIMEX avvenuta sul Vesuvio, la popolazione non è stata coinvolta. L’obiettivo era infatti testare la capacità risposta scientifica dei ricercatori e la comunicazione tra ricercatori che effettuano le osservazioni e le misure e la Protezione Civile. Infatti come sottolineato da Papale, ” il progetto VUELCO si occupa anche di come strutturare la comunicazione tra scienziati e autorità preposte al controllo e alla sicurezza del territorio in caso di eventi eccezionali”.
L’informazione infatti viene scambiata secondo protocolli ben strutturati nell’ambito di accordi quadro e convenzioni, ed è quindi necessario individuare metodi che consentano di migliorare la comunicazione tra vulcanologi e autorità.
Il progetto VUELCO terminerà nel settembre 2015. La speranza è che possa svilupparsi in un progetto successivo sotto Horizon 2020, per comprendere sempre meglio i segnali premonitori di un evento vulcanico, e per migliorare la capacità di prevedere e intervenire.
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