SPECIALE SETTEMBRE- Viviamo immersi in un mondo probabilistico: usare l’auto, mangiare cibi prodotti e confezionati da sconosciuti, camminare per la strada sono tutte attività potenzialmente mortali, ma assolutamente comuni. Siamo talmente circondati da probabilità negative, che spesso ce ne dimentichiamo – o, forse, ci proteggiamo fingendo di ignorarle. Perché, allora, c’è una così grande pressione pubblica rivolta verso le scienze predittive, ogni volta nell’occhio del ciclone se non azzeccano la “risposta giusta” ovvero se sbagliano la probabilità? Perché accettiamo di accenderci una sigaretta, ma non accettiamo che la scienza non riesca a predire un terremoto, non sappia bene come e dove si evolverà una epidemia o quando erutterà il Vesuvio (sotto cui vivono centinaia di migliaia di persone)? Ci sono numerose spiegazioni, ma tutte, in un modo o nell’altro, conducono sempre lì, al Sancta Sanctorum del rapporto tra scienza e società: la scienza appare ai più come un qualcosa di misterioso, monolitico, un mondo a parte di cui si conoscono solo i risultati, ma non il metodo per ottenerli.
Pillole (velenose) di scienza
Henry Pollack è uno dei maggiori studiosi del difficile rapporto tra “incertezza scientifica” e “società”. In un famoso libro del 2005 propone sostanzialmente tre teorie che possono spiegare l’evidente paradosso di cui sopra. Una premessa è importante: per uno scienziato l’incertezza è una realtà quotidiana, una caratteristica naturale del proprio lavoro, una variabile costante in ogni sua attività lavorativa. Per chiunque altro, dire che la scienza vive grazie all’incertezza (che, in sostanza, è il motore stesso della scienza) è abbastanza sconvolgente. Il seme di questo fraintendimento è nella scuola. Innanzitutto, le materie scientifiche sono rigidamente separate: la matematica da una parte, la fisica dall’altra e, se si è fortunati, tutte le altre discipline vengono accorpate in materie “olistiche”. Già questo imposta la mente degli alunni secondo rigide classi, che sono false poiché qualsiasi scienziato, che si occupi di ecologia, di psichiatria o di fisica quantistica, deve avere nozioni di matematica, fisica e numerose altre discipline. Soprattutto, però, a essere profondamente ambiguo è il modo in cui le nozioni scientifiche vengono somministrate agli alunni: la terra è sferica, il clima alpino è caratterizzato da tot elementi, questa formula matematica si risolve così. In altre parole, la scienza è somministrata in pillole adamantine, in sezioni di informazione spesso scollegate ma soprattutto monolitiche, inattaccabili: “la scienza dice che” è il mantra di quando si vuole concludere un discorso senza temere che qualcuno ribatta. È quindi naturale per i non-scienziati crescere convinti che la scienza possa avere risposte “vere” e sicure quasi per tutto. Angelina Jolie che si toglie un seno davanti alla probabilità (sebbene alta) di sviluppare un tumore è il frutto di questo tipo di formazione: la probabilità scientifica è alta quindi è praticamente sicuro che succederà.
La goccia che scava la montagna
Una seconda teoria, sempre riportata da Pollack, vede il mondo della scienza come una bolla poco permeabile. La scienza ha un vivace dialogo interno, fatto di grandi e piccoli scontri, in cui nulla può essere considerato “sicuramente vero” – o, almeno, è vero fintanto che qualcuno riesce a dimostrare che è falso. Ma questo dialogo, questa incertezza continua non traspare all’esterno e quando appare crea scandalo, come nel caso delle email dei climatologi inglesi. Lo scandalo è talmente forte (e ingiustificato) che spesso si instaura un meccanismo per cui se l’incertezza è massima per quanto riguarda un settore della scienza, il senso di insicurezza immediatamente dilaga e pervade tutto il sapere scientifico: “se non sanno quello, allora è possibile che anche tutto il resto sia falso”. È il caso dei vaccini: una piccolissima crepa (che, tra l’altro, è stata valutata come una frode pianificata) negli studi sui vaccini si è trasformata in uno squarcio e rischia di compromettere l’intera pediatria neonatale, tant’è che ci sono campagne ministeriali, costate migliaia di euro, che invitano le mamme semplicemente… a curarsi!
Apocalittici e in(te)grati
Infine, terza teoria, il problema sta nelle reazioni di potere: siamo annullati davanti alle parole di un medico specialista, non abbiamo possibilità di replica e internet solo parzialmente può aiutarci a trovare approfondimenti comprensibili. La scienza è potere, tant’è che lo scienziato pazzo rinchiuso nella sua torre (all’interno del castello del re) è un archetipo tipico dello storytelling, oggi declinato in scienziati iper-specializzati che risolvono le trame con frasi incomprensibili dal lessico improbabile. Insomma: la scienza è potere e come tale ha delle responsabilità. L’esercito deve vincere in guerra, gli scienziati devono fornire risposte chiare. Il problema è che se l’esercito non sempre vince le guerre, gli scienziati quasi mai possono dare risposte del tipo “sì/no”, altrimenti escono dalla scienza per trasformarsi in qualcos’altro. È esattamente quanto successo dopo il terremoto dell’Aquila. Pochi sono andati oltre le semplici invettive contro la magistratura italiana, che ha prodotto una sentenza certamente discutibile ma che non è una novella Torquemada. Non era la scienza a essere stata portata in tribunale, ma le opinioni, decisive, di alcuni cittadini. Sotto una pressione politica fortissima, gli scienziati della Commissione Grandi Rischi sono stati messi, spalle al muro, nella condizione di poter rispondere solo o sì o no: ci sarà il terremoto? Facciamo evacuare migliaia di persone? Vi assumete questa responsabilità? Sì o no? Davanti a questo gli scienziati non hanno retto: rispondendo “no” si sono spogliati del camice e sono tornati ad essere dei semplici cittadini. “No” è un’opinione, “probabilmente no” è scienza.
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