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Distopico o ottimista? Il futuro visto dalla fantascienza

È in corso un dibattito su come la fantascienza dovrebbe immaginare il nostro futuro.

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SPECIALE OTTOBRE – Possiamo immaginare una via verso un futuro migliore?

Per rispondere a questa domanda, lo scorso 2 ottobre si è riunito a Washington un eterogeneo mix di persone: dal direttore dell’ufficio innovazione della DARPA all’autore di Futurama, dalla fondatrice di SyFy Channel alla chief scientist della NASA. E poi professori, scrittori, giornalisti, che per una giornata si sono chiesti come la fantascienza può aiutarci a creare un futuro di cui i nostri discendenti possano andare fieri.

Ispiratrice dell’evento è stata Hieroglyph, un’antologia di racconti a sua volta ispirata da un articolo di Neal Stephenson del 2011, nel quale lo scrittore americano lamentava la stagnazione dell’innovazione odierna, secondo lui dovuta alla nostra preferenza per il guadagno a breve termine e alla sempre minor propensione ad assumersi rischi.

Ma cosa c’entra la fantascienza in tutto ciò? C’entra eccome: “il tecno-ottimismo della Golden Age della fantascienza ha lasciato il posto a storie scritte in toni più cupi, scettici e ambigui,” scriveva Stephenson. Ed è innegabile che il futuro che ci viene raccontato dalla fantascienza al giorno d’oggi è quasi sempre declinato in chiave distopica, dominato da decadenza morale e violenza, e caratterizzato da una visione negativa della tecnologia.

Come sottolinea Michael Solana, la fantascienza distopica un tempo era un genere di nicchia all’interno di un genere di nicchia, mentre ora è diventata un trend culturale dominante, che ha sicuramente giocato un ruolo nel plasmare il nostro immaginario collettivo. Solana non dà certo la colpa alla fantascienza per il “casino nel quale ci troviamo”, però ricorda che questo genere ci ha sempre aiutato a immaginare il nostro futuro, mentre ora sembra più interessato a farcelo temere. A questo proposito, Stephenson considera il dilagare della distopia come una prova del fatto che abbiamo perso la nostra fede nella capacità della tecnologia di generare progresso.

È innegabile che i primi romanzi distopici abbiano rappresentato una boccata d’ossigeno per un genere che si stava fossilizzando su un certo immaginario eccessivamente positivo, figlio di un’ingenua fiducia in un progresso che si pensava potesse continuare all’infinito. Ora però sembra che si stia esagerando nel senso opposto: dall’eccesso di ottimismo all’eccesso di pessimismo.

Al giorno d’oggi, se si escludono giocattoloni-blockbuster come Guardiani della Galassia o la saga dei Transformers, la narrativa distopica è diventata una cornice narrativa pressoché obbligata per chiunque voglia cimentarsi con la fantascienza.

Ma il carburante delle distopie di nuova generazione è lo stesso che spinse Orwell a scrivere 1984 o che indusse autori come Gibson e Sterling a dare vita al cyberpunk? Lasciamo da parte le differenze stilistico-letterarie e concentriamoci sul tipo di storie raccontate. A dominare lo scenario attuale ci sono le saghe young adult The Hunger Games e Divergent, tutte nate da una serie di libri e approdate sul grande schermo. La prima, complice anche un cast di alto livello trascinato da una Jennifer Lawrence sulla cresta dell’onda, ha aperto la strada e se fino a qualche anno fa young adult era sinonimo di pseudovampiri innamorati (e un po’ bigotti), ora invece vanno di moda ragazzini ribelli in lotta contro società tiranniche e opprimenti.

Se ci allontaniamo dal business della narrativa young adult le cose non cambiano. In Elysium (2013), Matt Damon abita sulla Terra sovrappopolata e derelitta del 2154, dominata tramite uno spietato corpo di poliziotti robot da un élite ricca e potente, che vive in una città spaziale. Tre grandi classici della fantascienza distopica e fumettistica degli anni 80-90 come Robocop, Total Recall e Dredd sono passati attraverso l’implacabile sentiero del remake e, se dal punto di vista cinematografico solo uno ci ha guadagnato, la genuinità di quelle ambientazioni allora cupe e oppressive si è oggi ridotta a una scopiazzatura che si limita a far da sfondo alle azioni dei personaggi. In Time è un film del 2011 che prende un’idea interessante – gli esseri umani smettono di invecchiare a 25 anni ma il tempo è diventato una moneta; chi non ha più “soldi” per pagare, muore – e ci cuce intorno un film mediocre, nonostante la presenza in regia di quell’Andrew Niccol che quattordici anni fa firmò Gattaca.

Viene il sospetto che le motivazioni dietro al successo delle distopie al giorno d’oggi non siano le stesse che armarono la penna di Orwell o Gibson. La sensazione è che la spiegazione sia molto più semplice: le storie distopiche funzionano, soprattutto nel bel mezzo di una crisi come quella attuale. Un eroe, un sistema oppressivo (in genere tecnocratico), un futuro non troppo lontano et voilà, il gioco è fatto. Secondo Solana, la carica “punk” del movimento cyberpunk è oggigiorno diventata un luogo comune e non c’è film in cui l’umanità non venga regolarmente distrutta da armi nucleari, computer impazziti, nanotecnologie e virus creati in laboratorio.

Attenzione, non si vuol certo liquidare così la fantascienza distopica contemporanea, ma non c’è dubbio che essa abbia perso molta della profondità di analisi di gente come Orwell, Dick, Gibson o Sterling. Paradigmatico, in questo senso, è l’esempio di Andrew Niccol: fra le coinvolgenti domande che emergevano in Gattaca (1997) e la superficialità di In Time (2011) c’è di mezzo un abisso.

È davvero giunto il momento, per gli scrittori di fantascienza, di lasciare da parte le ormai facili narrative distopiche e tornare a scrivere storie in grado di ispirare gli scienziati del futuro, come sostengono Stephenson e Solana? Oppure, come suggerisce un altro scrittore, Ramez Naam su Slate, non dobbiamo essere così frettolosi a liquidare la fantascienza distopica, poiché essa rientra in una radicata tradizione di storie “di avvertimento”, che hanno influenzato positivamente la nostra società, tanto quanto quelle apertamente tecno-ottimiste. Dopotutto, argomenta Naam, se non ci siamo trasformati in una società orwelliana, forse è in parte anche grazie a 1984. Nel suo articolo, Naam cita anche scrittori come Cory Doctorow e David Brin, e il fatto che entrambi fossero tra gli autori di Hieroglyph dimostra che forse non è il caso di dividersi fra tecno-ottimisti e distopici pessimisti, perché il mondo ha bisogno di entrambi.

@Lineegrigie

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.
Crediti immagine: Wonderlane, Flickr

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Michele Bellone
Sono un giornalista e mi occupo di comunicazione della scienza in diversi ambiti. I principali sono la dissemination di progetti europei, in collaborazione con Zadig, e il rapporto fra scienza e narrativa, argomento su cui tengo anche un corso al Master di comunicazione della scienza Franco Prattico della SISSA di Trieste. Ho scritto e scrivo per Focus, Micron, OggiScienza, Oxygen, Pagina 99, Pikaia, Le Scienze, Scienzainrete, La Stampa, Il Tascabile, Wired.it.