La promiscuità come strategia sessuale salva-cuccioli
Uno studio pubblicato su Science analizza le strategie utilizzate da alcune specie di mammiferi per ridurre l'infanticidio
SCOPERTE – Più amore, meno violenza. Questo sembrano suggerire l’evoluzione e molti mammiferi di sesso femminile in uno studio dell’Università di Cambridge in collaborazione con il Centro francese per l’Ecologia Funzionale ed Evolutiva.
Per alcuni mammiferi, dai leoni ai babbuini ai delfini, la maggiore minaccia di morte per i cuccioli non viene dai predatori o dalle malattie, ma dai maschi adulti della loro stessa specie. Le femmine di alcune specie, come quelle del lemure-topo, hanno però sviluppato una contro-strategia molto efficace per proteggere i loro figli: la promiscuità. Accoppiandosi con il maggior numero di maschi nel minor tempo possibile, confondono la paternità del neonato: a questo punto per un maschio adulto uccidere i cuccioli sarebbe controproducente perché metterebbe a rischio la sua stessa discendenza.
Capire perché questo comportamento si è evoluto soltanto in alcune specie di mammiferi e individuare il denominatore comune per l’infanticidio e le sue conseguenze è l’obiettivo della ricerca dello zoologo Dieter Lukas e della sua collega Elise Huchard, ecologista comportamentale.
Lo studio pubblicato su Science ha preso in considerazione 260 specie di mammiferi, 119 delle quali mostrano fenomeni di infanticidio da parte dei maschi adulti. “Quando abbiamo iniziato”, ha dichiarato Lukas, “non sapevamo se questo comportamento-killer fosse presente in una qualche specie ancestrale o se semplicemente fosse più evidente in alcuni mammiferi mentre in altri è andato perduto. O ancora se fosse un comportamento strategico che si verifica solo quando è vantaggioso per i maschi”.
Dalle osservazioni di Lukas e Huchard sembra emergere che l’infanticidio non è una pratica ereditata da un antenato comune ma è piuttosto la conseguenza di un intenso conflitto sessuale nei sistemi in cui i maschi competono per riprodursi. Ed è tipico di quelle specie che vivono in gruppo, soprattutto quando le femmine sono molto più numerose dei maschi, mentre è molto raro nelle specie monogame o nei mammiferi che vivono solitari.
Infatti, nei sistemi sociali in cui la riproduzione è monopolizzata da un piccolo numero di maschi, i quali spesso non riescono a mantenere la loro posizione dominante a lungo a causa della presenza di molti sfidanti, uccidere la prole dei precedenti maschi dominanti rende le femmine più attive da un punto di vista sessuale. E garantisce la continuazione di una certa stirpe e l’eliminazione di quella degli avversari.
Questa tattica maschile può venir contrastata con successo dalla promiscuità femminile: se una femmina ha molti compagni, la paternità è meno evidente e, nel dubbio, il maschio non rischia di uccidere la propria prole. Il che significa meno fenomeni di infanticidio in quella specie.
È stato dimostrato, inoltre, che un simile poligono amoroso non si limita a ridurre nel tempo i fenomeni violenti ma sposta la competizione riproduttiva da prima a dopo l’accoppiamento: se una femmina sceglie più compagni, i maschi che avranno maggior successo sono quelli con testicoli più grandi e una quantità di sperma maggiore.
“Nelle specie in cui si manifestano comportamenti-killer da parte dei maschi, le dimensioni dei testicoli aumentano di generazione in generazione, suggerendo che le femmine sono sempre più promiscue per confondere la paternità”, commenta Lukas. “Quando la competizione spermatica ha raggiunto livelli tali che un maschio non può essere certo della propria paternità, l’infanticidio scompare”.
E così succede. Per esempio, negli scimpanzé e nei bonobo, specie strettamente imparentate che però differiscono per dimensioni dei testicoli e comportamento infanticida: tra gli scimpanzé è comune l’uccisione della prole e i loro testicoli sono il 15% più piccoli di quelli dei bonobo, che invece non mostrano tendenze killer.
Nello studio di Lukas e Huchard non sono stati inclusi gli esseri umani perché, hanno spiegato i ricercatori, la loro diversità culturale rende difficile generalizzare i comportamenti sociali.
La loro ricerca comunque evidenzia che una delle più grandi sfide affrontate dai mammiferi nella vita proviene non da un predatore esterno ma da altri componenti della stessa specie.
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Crediti immagine: Arjan Haverkamp, Flickr